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Istanbul - Intervento per la commemorazione dell'abbraccio di Gerusalemme



Intervento del Prof. Andrea Riccardi
presentazione del volume di Valeria Martano, l'abbraccio di Gerusalemme.
Istituto Italiano di Cultura  - Istanbul, 16 dicembre 2014


Sono lieto di ritrovarmi con Sua Santità il Patriarca Bartolomeo che è un protagonista di questa storia ecumenica, che ci sta riservando nuove sorprese (come si è visto con la visita di Papa Francesco in questa città); ma è anche –non va sottovalutato- una memoria vivente e intelligente della vicenda di mezzo secolo di incontro, come abbiamo potuto ascoltare dalle sue parole così impegnative. Del resto essere qui con lui, per me, è un onore, anche perché lo ricordo sempre –fin da quando era giovane- con tanta stima e profonda simpatia. Ringrazio per l’invito a parlare del bel libro di Valeria Martano, e, in particolare, la Direttrice dell’Istituto di Cultura Italiana. Colgo l’occasione per salutare con affetto e stima, oltre al Signor Ambasciatore, anche il Sottosegretario Mario Giro, che ha voluto essere qui per sottolineare il valore dell’incontro e per onorare il Patriarca ecumenico.
Questo libro ruota, per così dire, attorno a un abbraccio. Nessun negoziato. Nessun risultato, se vogliamo, solo un abbraccio a Gerusalemme tra Paolo VI e Atenagora. Già il viaggio di Paolo VI in Terra Santa aveva un valore simbolico: una Chiesa centrata su Gerusalemme, sulle radici evangeliche e bibliche, sulla forza debole delle sue povere origini. Non il ritorno a Roma (che veniva chiesto ai cristiani non cattolici), ma il papa di Roma che si disloca a Gerusalemme: ma così non poteva essere senza l’incontro con il patriarca. Non solo per superare secoli di inimicizia, ma soprattutto quell’ignoranza dell’altro che caratterizzava la mentalità di allora. Non poteva esserci ritorno alle radici senza l’abbraccio. Papa Francesco, nel giugno scorso, parlando alla Comunità di Sant’Egidio a Trastevere, ha detto a proposito della Comunità e i poveri, ma con un valore più generale:
“Una tensione che lentamente cessa di essere tensione per divenire incontro, abbraccio: si confonde chi aiuta e chi è aiutato. Chi è il protagonista? Tutti e due, o, per meglio dire, l’abbraccio.”
La prima conseguenza di quell’abbraccio è che non c’è più un protagonista. Atenagora lo coglie con grande finezza, come rivela nel suo libro-intervista con l’indimenticabile Olivier Clément, così semplice così profondo, Dialogue avec le patriarche Athénagoras (che ho fatto tradurre in italiano con il titolo Umanesimo spirituale). Afferma: “Tutto si rimette in movimento, c’è un grande soffio di libertà. Il papa non è più solo, può avere compagni di strada”. Questo è il punto: quell’abbraccio ha corroso l’esaltazione della solitudine della monarchia papale, mostrando che la bellezza non è la grandezza del papa, ma l’incontro tra i due primati. E’ stata una corrosione lenta, ma profonda. Paolo VI, parlando di sé, dice che la sua solitudine è come quella della Madonna sulla guglia del Duomo di Milano.
Atenagora, artista del rapporto umano, coglie la grandezza di questo papa-riformatore e anche la sua fragilità. Gli dice: “Sono un vecchio, mi consenta questo consiglio: bisogna dormire di più, mangiare un po’ di più, lavorare un po’ di meno, camminare nei giardini e perfino, malgrado tutto, ridere”. Mons. Macchi, segretario di Paolo VI, mi disse che il patriarca aveva una corrispondenza con lui –per non disturbare il papa- in cui dava consigli sulla salute di Paolo VI e di si informava: lettere di amicizia insomma. Il patriarca aggiunge con fine sensibilità nel suo dialogo con Clément: “Ma soprattutto, il papa è talmente solo. E tutti abbiamo bisogno di fratelli. Per questo ho desiderato che mi accetti come un fratello, un fratello poveraccio, senza dubbio, l’ultimo di tutti, ma tuttavia un fratello”.
Il papa ha bisogno di un fratello: questa fraternità ha toni personali e acquista una valenza profonda, tanto che il patriarca fa dipingere un’icona dell’incontro in cui si vedono gli apostoli Pietro e Andrea che si abbracciano. Dal simbolo dell’abbraccio all’amicizia, alla fraternità, all’incontro, al dialogo, alla preghiera comune, alla comunione, alla teologia… C’è un approfondimento di significati umani e teologici, che scalza una teologia scolastica e controversistica, in modo caro a Atenagora, diffidente nei confronti di una teologia ideologizzata. Il patriarca dice prima di partire per la Terra Santa, rivelando il senso cristologico dell’abbraccio: “L’incontro non sarà semplice contatto tra due responsabili. Ha un grande obbiettivo: quello di ritrovare il Cristo, presente tra coloro che sono ‘uniti’ non ‘separati’”.
Valeria Martano rivela che, nella sala della delegazione apostolica dove doveva avvenire l’incontro di Gerusalemme, era stato montato un trono con predella e baldacchino per il papa: espressione della monarchia papale che non può essere allo stesso piano con nessuno. La sentenza X del Dictatus Papae dice: “che il suo nome sia solo in tutto il mondo”. Addirittura Paolo VI, nel suo messaggio al mondo appena eletto, chiamava i cristiani non cattolici fratelli, ma diceva che Roma era la loro casa paterna. In un anno tutto cambia. Il protocollo romano è sconvolto dall’abbraccio e dall’amicizia tra i due primati, che innescano una dinamica. Il pensiero e la riflessione teologica seguiranno. La casa diventa l’abbraccio: il ritorno a Gerusalemme e l’uno all’altro.
Paolo VI è toccato dall’incontro con il patriarca, come rivela ai cardinali appena tornato a Roma: “Il patriarca… è venuto incontro a me e ha voluto abbracciarmi, come si abbraccia un fratello, ha voluto stringermi la mano e condurmi lui, la mano nella mano, nel salotto in cui ci dovevamo scambiare alcune parole, per dire: dobbiamo, dobbiamo intenderci, dobbiamo fare la pace, dobbiamo far vedere al mondo che siamo ritornati fratelli”. Paolo VI confida che ha avuto la netta percezione che a Gerusalemme, in quell’abbraccio, è avvenuto qualcosa di nuovo e di profondo. Comincia la storia di mezzo secolo arrivata sino all’incontro a Gerusalemme tra papa Francesco e il patriarca Bartolomeo. Nel solco del dialogo dell’amore (che è quell’abbraccio), è iniziato quello teologico –dal 1979- con il rischio ben noto di ricadute nell’ideologico o nello strumentale. Tuttavia, dal quel 1964, è avvenuto qualcosa di irreversibile e di irresistibile. Il popolo cattolico comincia a accogliere nel proprio orizzonte il patriarca ecumenico, come un riferimento. E qui mi permetto di citare un pensiero del patriarca sul popolo, espresso ai focolarini: "I teologi non combineranno niente, essi sono attaccati alla loro personalità, alle loro idee, alla loro posizione. La speranza è nel popolo, nelle pecorelle...saranno loro che formeranno, che faranno l'unità". 
Vorrei aggiungere altre due osservazioni: una sulla genesi di quell’incontro e un’altra sul futuro. Va dato merito dell’iniziativa di Gerusalemme 1964 non solo alla carismaticità generosa di Atenagora, ma alla Grande Chiesa di Cristo, la Chiesa di Costantinopoli che nel Novecento ha assunto una postura storica rilevante: la ricerca di unità. Lo esprimeva bene il patriarca Bartolomeo nel suo discorso di intronizzazione del 1991, quando spiegava la storia della sua Chiesa alla luce della Chiesa di Cristo. Nella chiesa del Fanar si percepì che il suo era un discorso vibrante di forza, pur nella debolezza di un momento storico non facile: “quando sono debole, è allora che sono forte” (1 Cor 12, 10). E’ la grande forza di chi non ricerca la potenza della propria Chiesa, ma l’unità. Non l’autoreferenzialità, ma l’estroversione nella chiamata all’unità. Nella Chiesa di Costantinopoli, attraverso le sue vicende e traversie, c’è stata una passione travolgente per l’unità dei cristiani. Una passione che ha contagiato gli altri. Questo dicevano Chiara Lubich e padre Duprey, per citare due diverse personalità. Il Fanar, dagli anni Sessanta, diviene un crocevia anche per i cattolici, che si abbeverano a una fonte di unità e che qui vengono pellegrini: solo per parlare e incontrare.
Non insisterò sulla storia più remota di questo patriarcato. Ma, nella logica di questa missione, Atenagora –ben prima del pontificato di Paolo VI- cercava l’incontro con i cattolici e con il papa. Alcune lettere a Lardone, nunzio a Ankara e uomo di fiducia di Giovanni XXIII con il quale il papa intendeva presidiare questo crocevia turco, mostrano l'interesse di Atenagora: "se io scrivessi una lettera, crede lei -chiede al nunzio sul papa- che egli possa rispondermi con una sua lettera personale firmata?". Siamo nel 1961 e il patriarca teme che non arrivi una risposta diretta. Poi gli confida: io desidero visitare papa Giovanni, e mi do conto che non può restituirmi la visita a Istanbul: ho pensato a tante soluzioni e ora me ne viene in mente una... se io andassi a Roma, e potessi essere ospite del Santo Padre p.e. a Castelgandolfo, forse egli potrebbe rendermi visita là nella sua casa". Del resto già nel 1951 Atenagora s'era recato in visita alla delegazione apostolica, retta da quel grande diplomatico che era mons. Cassullo, salvatore di tanti ebrei in Romania.
Va anche detto che un papa –uomo di svolta-, Giovanni XXIII, era andato a bussare al Fanar con la sua santa curiosità nel 1927. Scrive a Roma del patriarca Basilio III, a cui aveva baciato la mano: "prego il Signore -gli dice il patriarca- che prima di chiudere gli occhi mi conceda la grazia di potermi incontrare con il Santo Padre per poter combinare con lui questa grande opera di unione delle nostre Chiese che risponde a uno dei più grandi bisogni dell'umanità. E confesso che quando me ne venisse fatto un cenno mi sentirei contento di superare ogni difficoltà della vecchiaia...L'amore è il primo punto". Proprio nel 1927, Roncalli viene ammonito da Roma "perché eserciti molta circospezione e prudenza nel trattare con le autorità scismatiche". Anche se, dopo aver ricevuto dal Fanar le condoglianze per la morte di Pio XI, nel 1939, ufficialmente rende visita al patriarca Beniamino I ("non toccammo affatto la questione dell'unione... evitammo ogni scoglio").
Va riconosciuto –con gratitudine e chiarezza- la profezia di unità che il patriarcato ecumenico ha rappresentato nella storia del cristianesimo del Novecento, facendosi carico della domanda di unità che emergeva dal popolo cristiano, stimolando cercatori di unità in tutte le Chiese. Dall’unità pan ortodossa, a quella tra cristiani, all’unità del genere umano attraverso il dialogo interreligioso, fino al senso del creato come casa comune, di cui va dato merito all’attuale patriarca. Mentre dal papa di Roma è venuto un forte messaggio per la pace in tutto il Novecento, condiviso dal Fanar, dal patriarca Bartolomeo è venuta una riscoperta della Chiesa amica del creato: “La Chiesa offre l’antidoto per il trattamento dei mali ecologici, chiamando tutti alla restaurazione dell' immagine di Dio alla sua antica bellezza originale”.
L’abbraccio tra Paolo VI e Atenagora ha inaugurato mezzo secolo di storia cristiana, di cui il libro di Martano offre un’importante ricostruzione. Forse, talvolta, il genio di quell’abbraccio è sembrato smarrirsi nella complessità delle vicende. Fu un abbraccio in tempo di guerra fredda, in un altro mondo. Ma oggi, proprio presentando questo libro, mezzo secolo dopo, va detto che un’altra stagione si è aperta: un’epoca – avrebbe detto Paolo VI. Siamo in tempi ecumenici, tanti sono i ponti e i contatti regolari. Ma ancora una volta da Costantinopoli, nel 2013, è partita un’iniziativa di cuore, che ha determinato la venuta a Roma –fatto mai avvenuto nella storia- del patriarca ecumenico per l’inizio del pontificato di quel Francesco, che si era voluto chiamare fin dall’inizio vescovo di Roma. Sua Santità Bartolomeo ha saputo intuire, prima di tanti, il valore dell’incontro e l’ecumenismo dell’amicizia di papa Francesco. Perché anche Francesco cerca compagni e non vuole andare avanti da solo. Così l’abbraccio di Gerusalemme del 2014 e la preghiera al Santo Sepolcro aprono una nuova epoca, inaugurata dalla memoria dei grandi che hanno tracciato la strada: Paolo VI e Atenagora. 
La visita di papa Francesco a Costantinopoli –secondo la mia lettura- ha tracciato un nuovo modello di ecumenismo, basato sull’abbraccio, da cui scaturisce una storia rinnovata. Ha riscaldato l’ecumenismo e lo ha rilanciato. Il papa –lo si vedeva fin da Gerusalemme- ha trovato un compagno. Le parole sul papa dette dal patriarca Bartolomeo sono state toccanti. E Francesco ha avuto espressioni che Atenagora avrebbe amato:
“Incontrarci, guardare il volto l’uno dell’altro, scambiare l’abbraccio di pace, pregare l’uno per l’altro sono dimensioni essenziali di quel cammino verso il ristabilimento della piena comunione alla quale tendiamo. Tutto ciò precede e accompagna costantemente quell’altra dimensione essenziale di tale cammino che è il dialogo teologico. Un autentico dialogo è sempre un incontro tra persone con un nome, un volto, una storia, e non soltanto un confronto di idee. Questo vale soprattutto per noi cristiani, perché per noi la verità è la persona di Gesù Cristo.”
Il mondo è cambiato: la globalizzazione ha cambiato le persone e i popoli. Le reazioni fondamentaliste, sia religiose che nazionaliste, a una mondializzazione invadente, sono di ogni giorno. L’ecumenismo si ricolloca in questo quadro. Il patriarcato ecumenico aveva da sempre avvertito sui rischi del nazionalismo: dalla condanna del filetismo alla Dichiarazione del Bosforo del 1994. Fanatismo religioso e nazionalismo sono storie rinate alla luce della globalizzazione. L’ecumenismo di papa Francesco e del patriarca Bartolomeo vuole essere anima in un mondo globale che ha perso il centro, non per confessionalizzarlo, ma per ridargli un cuore. Scriveva nel 1968 Atenagora: “Guai se i popoli, un giorno, accederanno all’unità fuori dalle strutture e dalla teologia della Chiesa. Per questo l’unione non deve essere un negoziato… diventa una creazione di vita compiuta da quelli che combattono per l’amore e la pace”.


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