A margine della deposizione del nunzio Mennini sul caso Moro, Andrea Riccardi ha pubblicato oggi un contributo sul ruolo di papa Montini sul Corriere della Sera:
La commissione Moro ha interrogato il munzio Mennini: il giovane prete amico di Moro, per alcuni, confessore dello statista nella prigione delle Br. L'interrogatorio ha risvegliato l'interesse per i lavori della commissione, da cui non ci si aspettano grandi novità, dopo ben cinque processi e la commissione stragi (attiva per 13 anni). Mennini ha ribadito di non aver confessato Moro, come ha testimoniato già sette volte.
In realtà queste testimonianze non sono in grado di illuminare le zone d'ombra di quei giorni drammatici. È invece il compito alla ricerca storica. La figura di Mennini richiama il problema del mondo cattolico di fronte al rapimento di uno dei suoi figli più illustri. Il giovane prete allora dipendeva dal Vicario di Roma, Poletti, che teneva i rapporti tra Paolo VI e la famiglia Moro, impegnata a salvare la vita di Aldo. Dal carcere, Moro guardava a Paolo VI, come un attore terzo rispetto al governo della fermezza, per mediare con le Br, magari interessate a un riconoscimento.
Contava sull'«umanitarismo» cattolico, sulla diplomazia e soggettività internazionale vaticana. Il suo modello era la liberazione di Giuliano Vassalli dalle SS, richiesta da Pio XII nella Roma occupata dai nazisti.
Paolo VI era, invece, stretto tra l'ansia di salvare Moro e la volontà di non destabilizzare il governo. Andreotti vigilava su quest'ultimo aspetto in contatto con il segretario del Papa, Macchi: «Mai il Vaticano chiese che si trattasse» dichiarò il leader DC. Forse non è stato proprio così. Montini ha tentato di allargare al massimo lo spazio del possibile. Resta l`interrogativo di quanto il problema italiano, rappresentato da Andreotti, non abbia spinto il Papa all`autocensura nell`azione. Il card. Confalonieri confidò al vaticanista Benny Lai: il Vaticano era diviso tra fermezza e trattativa («II Santo Padre gradirebbe questa seconda soluzione»). Lo sperava anche Moro: «Una
soluzione mediatrice» aldilà della ragion di Stato. In Vaticano c`era grande angoscia - secondo lo scrittore Giancarlo Zizola, che riportava la voce di un tentato sequestro del Segretario di Stato, Villot. Era l'atmosfera surreale di Roma in quei giorni d'impotenza. Non mancarono però iniziative vaticane: i contatti con i brigatisti carcerati tramite i cappellani, un telefono alla Caritas internazionale per ricevere messaggi, la raccolta di dieci miliardi per il riscatto... Niente servì. I cattolici erano piuttosto inerti. I Laureati cattolici, ramo dell`Azione cattolica vicino a Moro, furono per la fermezza. Non era questione di progressisti o conservatori. Lo si vede da un lettera, pubblicata su «Lotta continua» il 19 aprile 1978 (un mese dopo il rapimento), in cui si chiedeva di trattare. La firmarono il leader dell'Azione cattolica, Mario Agnes (con l'assenso vaticano), vari vescovi (tra cui alcuni ausiliari di Poletti), un gruppo di dossettiani, Carlo Bo e Turoldo. Poi venne la lettera del Papa alle Br il 22 aprile 1978, che definì la posizione della Chiesa. Un testo commovente, scritto dal Papa («Vi prego in ginocchio»), in cui c'era però un chiaro limite quando si chiedeva il rilascio di Moro «semplicemente, senza condizioni». Sul testo autografo del Papa un'altra grafia cancellò: «Senza alcuna imbarazzante condizione». Forse fu Macchi. Andreotti vide il testo prima. Nonostante il grande afflato, la posizione era chiara. Il Papa non mediava tra Stato e Br. Non lasciava solo il governo. Fu un dolente realismo di fronte alla decisione delle forze politiche italiane, che non vedevano alternative. Moro si sentì abbandonato e scrisse a Mennini: «Il Papa non poteva essere un po` più penetrante? Speriamo che lo sia stato senza dirlo». E ancora: «Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo». La responsabilità della morte di Moro è tutta di chi lo uccise: va ribadito. Si nota però come un cattolicesimo postconciliare così vivace, che parlava tanto di profezia, si ritrovò attonito, quasi nascosto dietro a un Papa solo e malato, stretto tra contrastanti esigenze. Gaetano Afeltra vide il Papa celebrare i funerali di Moro in Laterano e commentò con Zizola: «Ha sentito la voce? Una voce d`oltretomba. Con Moro, un poco è morto anche lui». Morì, il 6 agosto, 3 mesi dopo.
Si veda anche: "Paolo VI, umile riformatore" Corriere della Sera
La commissione Moro ha interrogato il munzio Mennini: il giovane prete amico di Moro, per alcuni, confessore dello statista nella prigione delle Br. L'interrogatorio ha risvegliato l'interesse per i lavori della commissione, da cui non ci si aspettano grandi novità, dopo ben cinque processi e la commissione stragi (attiva per 13 anni). Mennini ha ribadito di non aver confessato Moro, come ha testimoniato già sette volte.
In realtà queste testimonianze non sono in grado di illuminare le zone d'ombra di quei giorni drammatici. È invece il compito alla ricerca storica. La figura di Mennini richiama il problema del mondo cattolico di fronte al rapimento di uno dei suoi figli più illustri. Il giovane prete allora dipendeva dal Vicario di Roma, Poletti, che teneva i rapporti tra Paolo VI e la famiglia Moro, impegnata a salvare la vita di Aldo. Dal carcere, Moro guardava a Paolo VI, come un attore terzo rispetto al governo della fermezza, per mediare con le Br, magari interessate a un riconoscimento.
Contava sull'«umanitarismo» cattolico, sulla diplomazia e soggettività internazionale vaticana. Il suo modello era la liberazione di Giuliano Vassalli dalle SS, richiesta da Pio XII nella Roma occupata dai nazisti.
Paolo VI era, invece, stretto tra l'ansia di salvare Moro e la volontà di non destabilizzare il governo. Andreotti vigilava su quest'ultimo aspetto in contatto con il segretario del Papa, Macchi: «Mai il Vaticano chiese che si trattasse» dichiarò il leader DC. Forse non è stato proprio così. Montini ha tentato di allargare al massimo lo spazio del possibile. Resta l`interrogativo di quanto il problema italiano, rappresentato da Andreotti, non abbia spinto il Papa all`autocensura nell`azione. Il card. Confalonieri confidò al vaticanista Benny Lai: il Vaticano era diviso tra fermezza e trattativa («II Santo Padre gradirebbe questa seconda soluzione»). Lo sperava anche Moro: «Una
soluzione mediatrice» aldilà della ragion di Stato. In Vaticano c`era grande angoscia - secondo lo scrittore Giancarlo Zizola, che riportava la voce di un tentato sequestro del Segretario di Stato, Villot. Era l'atmosfera surreale di Roma in quei giorni d'impotenza. Non mancarono però iniziative vaticane: i contatti con i brigatisti carcerati tramite i cappellani, un telefono alla Caritas internazionale per ricevere messaggi, la raccolta di dieci miliardi per il riscatto... Niente servì. I cattolici erano piuttosto inerti. I Laureati cattolici, ramo dell`Azione cattolica vicino a Moro, furono per la fermezza. Non era questione di progressisti o conservatori. Lo si vede da un lettera, pubblicata su «Lotta continua» il 19 aprile 1978 (un mese dopo il rapimento), in cui si chiedeva di trattare. La firmarono il leader dell'Azione cattolica, Mario Agnes (con l'assenso vaticano), vari vescovi (tra cui alcuni ausiliari di Poletti), un gruppo di dossettiani, Carlo Bo e Turoldo. Poi venne la lettera del Papa alle Br il 22 aprile 1978, che definì la posizione della Chiesa. Un testo commovente, scritto dal Papa («Vi prego in ginocchio»), in cui c'era però un chiaro limite quando si chiedeva il rilascio di Moro «semplicemente, senza condizioni». Sul testo autografo del Papa un'altra grafia cancellò: «Senza alcuna imbarazzante condizione». Forse fu Macchi. Andreotti vide il testo prima. Nonostante il grande afflato, la posizione era chiara. Il Papa non mediava tra Stato e Br. Non lasciava solo il governo. Fu un dolente realismo di fronte alla decisione delle forze politiche italiane, che non vedevano alternative. Moro si sentì abbandonato e scrisse a Mennini: «Il Papa non poteva essere un po` più penetrante? Speriamo che lo sia stato senza dirlo». E ancora: «Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo». La responsabilità della morte di Moro è tutta di chi lo uccise: va ribadito. Si nota però come un cattolicesimo postconciliare così vivace, che parlava tanto di profezia, si ritrovò attonito, quasi nascosto dietro a un Papa solo e malato, stretto tra contrastanti esigenze. Gaetano Afeltra vide il Papa celebrare i funerali di Moro in Laterano e commentò con Zizola: «Ha sentito la voce? Una voce d`oltretomba. Con Moro, un poco è morto anche lui». Morì, il 6 agosto, 3 mesi dopo.
Si veda anche: "Paolo VI, umile riformatore" Corriere della Sera
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