In un editoriale pubblicato su Sette il 4 novembre 2016, Andrea Riccardi si sofferma sulla figura di Léopold Sédar Senghor, poeta e politico senegalese, incarnazione di una "civiltà eurafricana". Ed è proprio l'idea di "Eurafrica" che emerge più che mai attuale anche nel nostro tempo.
C'era un meticcio chiamato Léopold Sédar Senghor. Non figlio di coppia mista. Anzi era un africano, nato in Senegal, quand'era colonia francese. Fu peraltro presidente del Senegal indipendente per vent'anni, dal 1960 al 1980. Era un meticcio di cultura. La sua storia è importante non solo come padre dell'indipendenza senegalese e uno dei rari presidenti africani che lasciò il potere spontaneamente, vivendo gli ultimi anni in Francia senza il conforto delle ricchezze che molti capi di Stato africani portano all'estero.
Senghor rappresenta la cultura meticcia tra Africa ed Europa: una "art nègre", come diceva, in lingua francese. La sua grande opera letteraria è un meticciato di culture e sensibilità. È un patriota africano: lotta contro il colonialismo. Più volte deputato in Francia, professore nell'università francese, e sostenitore di un'unione tra i Paesi africani e la Francia, si batte per l'indipendenza del Senegal. Un suo verso rimprovera la politica francese, mentre dice la sua stima per i valori della Francia: «Sì, Signore perdona la Francia che dice bene quale sia la via destra e cammina per sentieri obliqui...». La resistenza di Senghor alla colonizzazione è stata anche culturale.
Dal 1935, con l'antillese Aimé Césaire, Senghor, rivendica i valori africani, anzi "negri". Nasce così il movimento della "negritude" per rivendicare il carattere autentico della cultura dei "neri". Basta pensare - in quegli stessi anni - all'influenza dell'arte africana, esposta in Europa, su Picasso o altri artisti. Quando nel 1947, a Parigi e a Dakar, appare la rivista Présence africaine (che dura ancora), l'impatto è fortissimo. Jean-Paul Sartre, introducendo il libro di Senghor sulla poesia "nègre" in francese, annuncia: «Oggi questi uomini ci guardano e il nostro sguardo ci rientra negli occhi...». Negli anni Cinquanta Présence africaine organizza due congressi degli scrittori e artisti "negri" a Parigi nel 1956 e a Roma nel 1959. In quest'ultima occasione, alla vigilia delle indipendenze africane, Senghor ribadisce che la costruzione di uno Stato africano libero non è solo un fatto politico, ma deve avere al centro l'uomo e la cultura.
In quegli anni, il futuro presidente del Senegal è ormai un affermato poeta e uno scrittore di lingua francese, che ha compiuto un meticciato: lingua e cultura della Francia con valori e tradizioni africane. Dal 1984, è membro dell'Accademia di Francia. Per lui, non basta conservare i valori africani in un mondo tradizionale che rischia di scomparire; bisogna inserirli nel flusso della cultura contemporanea. In seguito, vari intellettuali africani criticano la sua operazione culturale, come subordinata alla visione coloniale. Altri, invece, lo accusano di razzismo al rovescio. In realtà ci troviamo di fronte a una personalità originale e creativa, che resta ancora oggi un riferimento nel mondo globale.
«Oh sangue mischiato nelle mie vene...», scrive Senghor in una poesia sulle origini etniche della sua famiglia. Cattolico, è presidente di un Senegal in larga parte musulmano. Ogni essere umano si confronta con diverse storie e culture: per questo, bisogna passare «dal meticciato biologico a quello culturale», afferma. Segue Teilhard de Chardin sostenitore della "civiltà dell'universale". Del resto sostiene che «ogni civiltà muore della sua purezza». Siamo nel secondo dopoguerra. Senghor pensa che la cultura africana debba trovare spazio in un orizzonte universale. Per Emmanuel Mounier, filosofo personalista, Senghor è l'incarnazione di una nuova civiltà eurafricana: «Lei è africano nella sua viva carne», gli scrive «... lei è europeo per un'altra parte, per la lingua che ha appreso e che la informa... La civiltà euroafricana, di cui siete i pionieri, deve ancora trovare le sue strutture».
Oggi, mentre è così vivo l'incontro tra africani ed europei, l'idea di "Eurafrica" ritorna come una visione attuale.
C'era un meticcio chiamato Léopold Sédar Senghor. Non figlio di coppia mista. Anzi era un africano, nato in Senegal, quand'era colonia francese. Fu peraltro presidente del Senegal indipendente per vent'anni, dal 1960 al 1980. Era un meticcio di cultura. La sua storia è importante non solo come padre dell'indipendenza senegalese e uno dei rari presidenti africani che lasciò il potere spontaneamente, vivendo gli ultimi anni in Francia senza il conforto delle ricchezze che molti capi di Stato africani portano all'estero.
Senghor rappresenta la cultura meticcia tra Africa ed Europa: una "art nègre", come diceva, in lingua francese. La sua grande opera letteraria è un meticciato di culture e sensibilità. È un patriota africano: lotta contro il colonialismo. Più volte deputato in Francia, professore nell'università francese, e sostenitore di un'unione tra i Paesi africani e la Francia, si batte per l'indipendenza del Senegal. Un suo verso rimprovera la politica francese, mentre dice la sua stima per i valori della Francia: «Sì, Signore perdona la Francia che dice bene quale sia la via destra e cammina per sentieri obliqui...». La resistenza di Senghor alla colonizzazione è stata anche culturale.
Dal 1935, con l'antillese Aimé Césaire, Senghor, rivendica i valori africani, anzi "negri". Nasce così il movimento della "negritude" per rivendicare il carattere autentico della cultura dei "neri". Basta pensare - in quegli stessi anni - all'influenza dell'arte africana, esposta in Europa, su Picasso o altri artisti. Quando nel 1947, a Parigi e a Dakar, appare la rivista Présence africaine (che dura ancora), l'impatto è fortissimo. Jean-Paul Sartre, introducendo il libro di Senghor sulla poesia "nègre" in francese, annuncia: «Oggi questi uomini ci guardano e il nostro sguardo ci rientra negli occhi...». Negli anni Cinquanta Présence africaine organizza due congressi degli scrittori e artisti "negri" a Parigi nel 1956 e a Roma nel 1959. In quest'ultima occasione, alla vigilia delle indipendenze africane, Senghor ribadisce che la costruzione di uno Stato africano libero non è solo un fatto politico, ma deve avere al centro l'uomo e la cultura.
In quegli anni, il futuro presidente del Senegal è ormai un affermato poeta e uno scrittore di lingua francese, che ha compiuto un meticciato: lingua e cultura della Francia con valori e tradizioni africane. Dal 1984, è membro dell'Accademia di Francia. Per lui, non basta conservare i valori africani in un mondo tradizionale che rischia di scomparire; bisogna inserirli nel flusso della cultura contemporanea. In seguito, vari intellettuali africani criticano la sua operazione culturale, come subordinata alla visione coloniale. Altri, invece, lo accusano di razzismo al rovescio. In realtà ci troviamo di fronte a una personalità originale e creativa, che resta ancora oggi un riferimento nel mondo globale.
«Oh sangue mischiato nelle mie vene...», scrive Senghor in una poesia sulle origini etniche della sua famiglia. Cattolico, è presidente di un Senegal in larga parte musulmano. Ogni essere umano si confronta con diverse storie e culture: per questo, bisogna passare «dal meticciato biologico a quello culturale», afferma. Segue Teilhard de Chardin sostenitore della "civiltà dell'universale". Del resto sostiene che «ogni civiltà muore della sua purezza». Siamo nel secondo dopoguerra. Senghor pensa che la cultura africana debba trovare spazio in un orizzonte universale. Per Emmanuel Mounier, filosofo personalista, Senghor è l'incarnazione di una nuova civiltà eurafricana: «Lei è africano nella sua viva carne», gli scrive «... lei è europeo per un'altra parte, per la lingua che ha appreso e che la informa... La civiltà euroafricana, di cui siete i pionieri, deve ancora trovare le sue strutture».
Oggi, mentre è così vivo l'incontro tra africani ed europei, l'idea di "Eurafrica" ritorna come una visione attuale.
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