Sono trascorsi esattamente cent`anni dai massacri degli armeni nell'impero ottomano, iniziati i1 24 aprile 1915 con la
deportazione dei notabili della comunità di Istanbul. É una storia che
non passa, stretta tra due memorie contrapposte: la turca e
l'armena. Lo si è visto nelle dure risposte turche a papa Francesco,
quando ha parlato del «primo genocidio del Novecento». La Turchia
repubblicana, nonostante Kemal Ataturk non fosse coinvolto in quegli
eventi, ha, dall'inizio, costruito la sua storia derubricando le
stragi a episodi di violenza nel caos bellico o a reazioni alle
insorgenze armene. All`atto della fondazione della Repubblica,
ne1 1923, il governo temeva rivendicazioni territoriali armene. Era poi
rilevante l`appoggio di non pochi Giovani Turchi (al potere nel
1915), che avevano sostenuto i massacri e sottratto i beni cristiani.
Si sono sviluppate così una storiografia ufficiale, negatrice del
genocidio, e una politica giudiziaria contro chi parlava di massacri.
Cent`anni dopo i tempi sono maturi per una
riflessione senza divisioni: la storia non deve utilizzare il passato
per fomentare l'odio, ma per creare le basi di un riavvicinamento tra i
discendenti dei sopravvissuti ai massacri e la Turchia.
Ancora nel 2005, il Nobel per la Letteratura Orhan Pamuk fu incriminato per «vilipendio all'identità nazionale». Per gli armeni, tra il 1915 e i1 1916, è avvenuto un genocidio di 1.500.000 correligionari. Restano il dolore e la memoria dei discendenti. Il romanzo dell'ebreo tedesco, Franz Werfel, I quaranta giorni del Mussa Dagh, da1 1933 ha fatto conoscere al mondo quella storia. L'attuale storiografia, con varietà di posizioni, ha mostrato una vicenda impressionante: la tragica fine di un mondo di convivenza tra cristiani e musulmani. Certo era una convivenza su basi disuguali, come l'aveva disegnata l'impero ottomano alla nascita (ma nell`Europa coeva era peggio, tanto che nel 1492 gli ebrei, scacciati dalla Spagna, trovarono rifugio tra gli ottomani).
I Giovani Turchi, nel 1915, sconfitti nei Balcani dai Paesi «cristiani», colsero l`occasione della guerra mondiale per fare pulizia etnica degli armeni e costruire una nazione turca, assimilando le masse curde, arabe e d'altra etnia. Ma era impossibile turchizzare gli armeni dalla spiccata identità. Andavano eliminati. Per questa operazione scatenarono il fanatismo contro l'infedele. Così, con gli armeni, morirono tanti cristiani poi dimenticati: siriaci, caldei, assiri, protestanti. La nuova storiografia (anche di studiosi turchi), fondata su archivi ottomani, conferma i massacri.
I cristiani sono quasi scomparsi dall'Anatolia durante la guerra: erano il 19% al censimento del 1914. Continuano però due memorie divaricate. Gli armeni ricordano oggi Metz Yeghern, il Grande Male, a Erevan, assieme a Putin, Hollande e tanti religiosi cristiani. Erdogan, in questi giorni, commemora la battaglia di Gallipoli del 1915, una vittoria ottomana che costò 250.000 morti a turchi e truppe dell'Intesa.
Tutto resterà bloccato nella contrapposizione? Eppure gli armeni e i turchi di oggi non sono né le vittime o i massacratori di cent`anni fa. La storia va riconosciuta. Parte della storia è anche ricordare i musulmani che strapparono i cristiani ai massacratori. Tanti cristiani morirono in quelle stragi; tanti furono forzati (specie donne e bambini) a convertirsi all'Islam e inserirsi nella società musulmana. La loro memoria riaffiora oggi dai discendenti.
E poi - fatto incredibile! in Turchia, accanto ai 40.000 armeni «storici», ne sono giunti altri l00.000 immigrati dall'Armenia, quasi un ritorno. Hrant Dink, intellettuale turco-armeno, fu ucciso nel 2007 perché voleva rifondare il «vivere insieme», chiedendo con sensibilità e sincerità ai turchi di ricordare Metz Yeghern. Furono complici del suo assassinio alcuni funzionari di polizia (oggi indagati). Dopo la sua morte è stata avanzata una richiesta di perdono per le stragi che ha raccolto 30.000 firme turche.
A gennaio scorso, il primo ministro turco Davutoglu ha rievocato Dink come simbolo di un «nuovo inizio» tra turchi e armeni. Davutoglu in questi giorni ha proposto di «affrontare onestamente il passato». Oggi la forza politica al potere in Turchia, nonostante i radicati settori nazionalisti, può imprimere una svolta. D`altra parte c`è un'Armenia indipendente. La storiografia internazionale è matura. Non si può indagare il passato, liberi dai fantasmi? La storia non deve utilizzare il passato per fomentare l`odio, ma per discutere insieme in modo documentato. In un Mediterraneo, inquinato da violenze e contrapposizioni, sarebbe un bel segnale proprio l`avvio di un processo, anche lento, che riavvicinasse turchi e armeni alla luce del realismo storico e dell`incontro. Qui non basta la politica, ma ci vogliono coraggio civile e cultura.
Un editoriale di Andrea Riccardi su "Il Corriere della Sera" 24 aprile 2015
Ancora nel 2005, il Nobel per la Letteratura Orhan Pamuk fu incriminato per «vilipendio all'identità nazionale». Per gli armeni, tra il 1915 e i1 1916, è avvenuto un genocidio di 1.500.000 correligionari. Restano il dolore e la memoria dei discendenti. Il romanzo dell'ebreo tedesco, Franz Werfel, I quaranta giorni del Mussa Dagh, da1 1933 ha fatto conoscere al mondo quella storia. L'attuale storiografia, con varietà di posizioni, ha mostrato una vicenda impressionante: la tragica fine di un mondo di convivenza tra cristiani e musulmani. Certo era una convivenza su basi disuguali, come l'aveva disegnata l'impero ottomano alla nascita (ma nell`Europa coeva era peggio, tanto che nel 1492 gli ebrei, scacciati dalla Spagna, trovarono rifugio tra gli ottomani).
I Giovani Turchi, nel 1915, sconfitti nei Balcani dai Paesi «cristiani», colsero l`occasione della guerra mondiale per fare pulizia etnica degli armeni e costruire una nazione turca, assimilando le masse curde, arabe e d'altra etnia. Ma era impossibile turchizzare gli armeni dalla spiccata identità. Andavano eliminati. Per questa operazione scatenarono il fanatismo contro l'infedele. Così, con gli armeni, morirono tanti cristiani poi dimenticati: siriaci, caldei, assiri, protestanti. La nuova storiografia (anche di studiosi turchi), fondata su archivi ottomani, conferma i massacri.
I cristiani sono quasi scomparsi dall'Anatolia durante la guerra: erano il 19% al censimento del 1914. Continuano però due memorie divaricate. Gli armeni ricordano oggi Metz Yeghern, il Grande Male, a Erevan, assieme a Putin, Hollande e tanti religiosi cristiani. Erdogan, in questi giorni, commemora la battaglia di Gallipoli del 1915, una vittoria ottomana che costò 250.000 morti a turchi e truppe dell'Intesa.
Tutto resterà bloccato nella contrapposizione? Eppure gli armeni e i turchi di oggi non sono né le vittime o i massacratori di cent`anni fa. La storia va riconosciuta. Parte della storia è anche ricordare i musulmani che strapparono i cristiani ai massacratori. Tanti cristiani morirono in quelle stragi; tanti furono forzati (specie donne e bambini) a convertirsi all'Islam e inserirsi nella società musulmana. La loro memoria riaffiora oggi dai discendenti.
E poi - fatto incredibile! in Turchia, accanto ai 40.000 armeni «storici», ne sono giunti altri l00.000 immigrati dall'Armenia, quasi un ritorno. Hrant Dink, intellettuale turco-armeno, fu ucciso nel 2007 perché voleva rifondare il «vivere insieme», chiedendo con sensibilità e sincerità ai turchi di ricordare Metz Yeghern. Furono complici del suo assassinio alcuni funzionari di polizia (oggi indagati). Dopo la sua morte è stata avanzata una richiesta di perdono per le stragi che ha raccolto 30.000 firme turche.
A gennaio scorso, il primo ministro turco Davutoglu ha rievocato Dink come simbolo di un «nuovo inizio» tra turchi e armeni. Davutoglu in questi giorni ha proposto di «affrontare onestamente il passato». Oggi la forza politica al potere in Turchia, nonostante i radicati settori nazionalisti, può imprimere una svolta. D`altra parte c`è un'Armenia indipendente. La storiografia internazionale è matura. Non si può indagare il passato, liberi dai fantasmi? La storia non deve utilizzare il passato per fomentare l`odio, ma per discutere insieme in modo documentato. In un Mediterraneo, inquinato da violenze e contrapposizioni, sarebbe un bel segnale proprio l`avvio di un processo, anche lento, che riavvicinasse turchi e armeni alla luce del realismo storico e dell`incontro. Qui non basta la politica, ma ci vogliono coraggio civile e cultura.
Un editoriale di Andrea Riccardi su "Il Corriere della Sera" 24 aprile 2015
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