Francesco è, per tanti aspetti, il primo Papa globale. Nella sua
Chiesa si discute di più. Anche vescovi e cardinali esprimono le loro
perplessità verso il Papa in privato e pure in pubblico (fatto inedito
nel cattolicesimo). Recentemente, quattro cardinali hanno chiesto
chiarezza sul testo dell'Amoris Laetitia, con rispetto, ma decisione.
Ma non si tratta solo di dottrina. Le priorità di Francesco non fanno
l'unanimità.
Parlando al Giubileo delle persone escluse, ha detto la sua idea di Chiesa: «Apriamo gli occhi al prossimo, soprattutto al fratello dimenticato ed escluso... Lì punta la lente d'ingrandimento della Chiesa. Che il Signore ci liberi dal rivolgerla verso di noi. Ci distolga dagli orpelli che distraggono, dagli interessi e dai privilegi, dagli attaccamenti al potere...». Francesco vuole una Chiesa povera e dei poveri, come ha detto fin dall'inizio. La Chiesa è, per lui, una "lente d'ingrandimento" centrata sul dolore dei più poveri. Questa accentuazione si accompagna a un invito: uscire dai recinti ecclesiastici, incontrare, comunicare la fede, senza dare priorità assoluta ai cosiddetti "valori non negoziabili" (valori etici, assimilabili al diritto naturale, non respinti ma non enfatizzati da Bergoglio). Il Papa punta a un cattolicesimo di popolo, non a una minoranza cattolica coesa: vuole riempire spiritualmente e umanamente i vuoti immensi aperti della globalizzazione. È un cattolicesimo che si misura - come lui faceva a Buenos Aires - sulla complessa città contemporanea. Questa è la sfida del primo Papa globale a un mondo immenso a cangiante: una Chiesa larga, misericordiosa e attrattiva, che parta dai più poveri.
Un'utopia? Non pochi lo pensano. I critici delineano un altro modello di Chiesa, che attribuisce priorità ai valori tradizionali: un nazional-cattolicesimo, in cui l'identità nazionale dovrebbe fare da argine all'invadenza del mondo globale. La nazione, fondata sui valori cristiani, fa argine ai modelli globali, all'immigrazione musulmana, ai parametri dell'Unione Europea. Una simile posizione sta maturando nell'Est europeo: in Cechia, Ungheria, Lituania, Slovacchia. Anche in Polonia, seppure il grande cattolicesimo polacco è più complesso. È la risposta al rullo compressore della globalizzazione e alla sua proposta (imposizione?) di valori differenti da quelli nazionali e tradizionali.
Per certi versi, si riprende la teologia delle nazioni di papa Wojtyla (il battesimo cristiano dei popoli e la storia cristiana attiaverso essi). Ma non si ritrova la sua fantasia creatrice, messianica e missionaria; mentre cadono gli aspetti universalistici e messianici del suo messaggio, come lo spirito di Assisi e altro. L'audacia wojtyliana sembra tramontata in questa visione nazional-cattolica, segnata dal timore. Il Papa ha allargato le maglie del dibattito: emergono dissensi impensabili qualche anno fa. Oggi gli episcopati, rifacendosi al Vaticano II, prendono le loro posizioni con autonomia.
È il caso dell'episcopato in Colombia, neutrale al referendum sugli accordi di pace tra governo e Farc (una guerra civile di mezzo secolo), nonostante il Papa avesse plaudito a esso. Gli accordi contenevano una parte sul gender. È prevalsa, da parte dei vescovi, una visione nazionale del problema e del ruolo della Chiesa. Negli Stati Uniti, almeno la metà dei cattolici e dei vescovi ha votato Trump, nonostante le polemiche tra lui e il Papa. Certo Hillary era un candidato ostico per i cattolici. Tuttavia c'è una tendenza profonda: la nazione, cristianamente rivisitata, diventerebbe - secondo questa visione - un "vascello" con cui affrontare i marosi globali, anche per la Chiesa (quindi con un rapporto più attento con la politica). Questo nazional-cattolicesimo non sembra il modello di papa Francesco. Eppure ha una storia alle sue spalle. E il Papa? In questo quadro resterebbe un grande predicatore e profeta nell'internazionale cattolica. Non si dimentichi però, che - nel cattolicesimo - è lui che sceglie i vescovi. Francesco sa che una delle più grandi sfide per lui è rinnovare gli episcopati. Lo sta facendo. Ma ci vuole tempo.
Questo articolo di Andrea Riccardi è apparso sul magazine "Sette" del Corriere della Sera del 25 novembre 2016.
Parlando al Giubileo delle persone escluse, ha detto la sua idea di Chiesa: «Apriamo gli occhi al prossimo, soprattutto al fratello dimenticato ed escluso... Lì punta la lente d'ingrandimento della Chiesa. Che il Signore ci liberi dal rivolgerla verso di noi. Ci distolga dagli orpelli che distraggono, dagli interessi e dai privilegi, dagli attaccamenti al potere...». Francesco vuole una Chiesa povera e dei poveri, come ha detto fin dall'inizio. La Chiesa è, per lui, una "lente d'ingrandimento" centrata sul dolore dei più poveri. Questa accentuazione si accompagna a un invito: uscire dai recinti ecclesiastici, incontrare, comunicare la fede, senza dare priorità assoluta ai cosiddetti "valori non negoziabili" (valori etici, assimilabili al diritto naturale, non respinti ma non enfatizzati da Bergoglio). Il Papa punta a un cattolicesimo di popolo, non a una minoranza cattolica coesa: vuole riempire spiritualmente e umanamente i vuoti immensi aperti della globalizzazione. È un cattolicesimo che si misura - come lui faceva a Buenos Aires - sulla complessa città contemporanea. Questa è la sfida del primo Papa globale a un mondo immenso a cangiante: una Chiesa larga, misericordiosa e attrattiva, che parta dai più poveri.
Un'utopia? Non pochi lo pensano. I critici delineano un altro modello di Chiesa, che attribuisce priorità ai valori tradizionali: un nazional-cattolicesimo, in cui l'identità nazionale dovrebbe fare da argine all'invadenza del mondo globale. La nazione, fondata sui valori cristiani, fa argine ai modelli globali, all'immigrazione musulmana, ai parametri dell'Unione Europea. Una simile posizione sta maturando nell'Est europeo: in Cechia, Ungheria, Lituania, Slovacchia. Anche in Polonia, seppure il grande cattolicesimo polacco è più complesso. È la risposta al rullo compressore della globalizzazione e alla sua proposta (imposizione?) di valori differenti da quelli nazionali e tradizionali.
Per certi versi, si riprende la teologia delle nazioni di papa Wojtyla (il battesimo cristiano dei popoli e la storia cristiana attiaverso essi). Ma non si ritrova la sua fantasia creatrice, messianica e missionaria; mentre cadono gli aspetti universalistici e messianici del suo messaggio, come lo spirito di Assisi e altro. L'audacia wojtyliana sembra tramontata in questa visione nazional-cattolica, segnata dal timore. Il Papa ha allargato le maglie del dibattito: emergono dissensi impensabili qualche anno fa. Oggi gli episcopati, rifacendosi al Vaticano II, prendono le loro posizioni con autonomia.
È il caso dell'episcopato in Colombia, neutrale al referendum sugli accordi di pace tra governo e Farc (una guerra civile di mezzo secolo), nonostante il Papa avesse plaudito a esso. Gli accordi contenevano una parte sul gender. È prevalsa, da parte dei vescovi, una visione nazionale del problema e del ruolo della Chiesa. Negli Stati Uniti, almeno la metà dei cattolici e dei vescovi ha votato Trump, nonostante le polemiche tra lui e il Papa. Certo Hillary era un candidato ostico per i cattolici. Tuttavia c'è una tendenza profonda: la nazione, cristianamente rivisitata, diventerebbe - secondo questa visione - un "vascello" con cui affrontare i marosi globali, anche per la Chiesa (quindi con un rapporto più attento con la politica). Questo nazional-cattolicesimo non sembra il modello di papa Francesco. Eppure ha una storia alle sue spalle. E il Papa? In questo quadro resterebbe un grande predicatore e profeta nell'internazionale cattolica. Non si dimentichi però, che - nel cattolicesimo - è lui che sceglie i vescovi. Francesco sa che una delle più grandi sfide per lui è rinnovare gli episcopati. Lo sta facendo. Ma ci vuole tempo.
Questo articolo di Andrea Riccardi è apparso sul magazine "Sette" del Corriere della Sera del 25 novembre 2016.
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