Focus sull'Asia in questo post di Andrea Riccardi (apparso su "Sette", il magazine del Corriere della Sera del 31 marzo 2107). L'autore riporta l'attenzione su un genocidio dimenticato del '900, quello compiuto dai Khmer Rossi in Cambogia.
C'è anche questo nella nostra storia: l'incredibile vicenda della Cambogia dove, tra il 1975 e il 1979, i khmer rossi decisero di costruire una civiltà di donne e uomini nuovi, il vero comunismo basato su un egualitarismo assoluto, che si richiamava anche a tradizioni ancestrali.
In realtà non fu una civiltà nuova, ma un incredibile genocidio di cui è difficile calcolare le dimensioni (tra uno e due milioni di morti, un quarto della popolazione del Paese). L'operazione avvenne sotto la guida del partito comunista cambogiano, il famoso Angkar Padevat, i cui leader a lungo risultarono sconosciuti. L'Angkar era una presenza onnipotente nella vita quotidiana: i suoi ordini indiscutibili. Guidava il popolo verso un "futuro migliore" esercitando il diritto di vita o di morte sui cittadini. La sicurezza rivoluzionaria era un'ossessione: «Meglio uccidere un innocente che lasciare in vita un colpevole». Il primo atto con cui i rivoluzionari si fecero conoscere fu l'abbandono forzato della capitale Phnom Penh da parte degli abitanti. Phnom Penh era una città gradevole, caratterizzata da un misto di architettura cambogiana e coloniale francese. Ma, per i khmer rossi, incarnava la corruzione: «La città è cattiva», dicevano, «perché c'è il denaro, dunque l'ineguaglianza. In città non coltivate il riso che mangiate». Così la popolazione urbana senza alcuna eccezione, compresi i malati degli ospedali, fu costretta a un drammatico esodo verso le campagne.
Era aprile, il mese caldo, e le condizioni di vita erano terribili per la marea umana in movimento. A un certo punto, gli ufficiali, gli intellettuali e il personale amministrativo vennero richiamati con un falso motivo e subito eliminati. Cominciava così l'applicazione del principio della purificazione della popolazione: prima quanti erano stati legati al passato regime, poi gli intellettuali (anche solo quelli che avevano gli occhiali) e quanti avevano gestito attività economiche, infine doveva scomparire chi non era inquadrabile nella classe dei contadini.
Bisognava insomma eliminare tutti i potenziali nemici. Nessuna rieducazione era possibile. Il sospetto, la delazione e il controllo assoluto dominavano la vita dei cambogiani, ormai collettivizzata in villaggi contadini. L'Angkar controllava tutto. La società fu ristrutturata per realizzare il socialismo contadino: abolito il denaro, si viveva in villaggi senza alcuna proprietà privata, si mangiava insieme, mentre la vita personale era ridotta a niente. I ragazzi, dai sei ai dodici anni, vivevano in case separate, educati dal partito: loro dovevano essere i protagonisti del futuro socialista, non deformati dal capitalismo come i loro genitori.
Una bambina dodicenne riuscì a fuggire. Avrebbe poi raccontato la sua testimonianza dolorosa in un libro, Il racconto di Peuw bambina cambogiana. Gli adulti erano costretti a sfibranti giornate di lavoro nei campi. Il popolo, ridotto a una massa di schiavi, però non rispondeva adeguatamente secondo Pol Pot. Questi, alla guida del sistema, già nel 1976 dichiarava: «Una malattia si annida nel partito... Noi cerchiamo i microbi che si annidano nel partito senza successo». Da qui, la follia di purghe, epurazioni ed esecuzioni alla ricerca del nemico da cui purificare la rivoluzione socialista. A Phnom Penh, il museo del genocidio è oggi allestito a Tuol Sleng, un carcere, dove sono state uccise circa 20.000 persone (ne sono sopravvissute solo sette, perché tutti erano condannati a morte). La prigione era uno snodo nel sistema concentrazionario. Vedendo le testimonianze di orrore e di sadismo in quegli ambienti, si misura la follia della "nuova civiltà" di Pol Pot e della banda dei sei. Il loro utopismo veniva da lontano. Pol Pot aveva conosciuto il marxismo durante gli studi in Francia e si era convinto che avrebbe potuto liberare la Cambogia dal controllo francese e ripristinare la pura civiltà khmer. Il suo potere sul Paese dura meno di quattro anni. Ma la sua visione crudele e priva di senso della realtà ha trasformato la Cambogia in un inferno.
C'è anche questo nella nostra storia: l'incredibile vicenda della Cambogia dove, tra il 1975 e il 1979, i khmer rossi decisero di costruire una civiltà di donne e uomini nuovi, il vero comunismo basato su un egualitarismo assoluto, che si richiamava anche a tradizioni ancestrali.
In realtà non fu una civiltà nuova, ma un incredibile genocidio di cui è difficile calcolare le dimensioni (tra uno e due milioni di morti, un quarto della popolazione del Paese). L'operazione avvenne sotto la guida del partito comunista cambogiano, il famoso Angkar Padevat, i cui leader a lungo risultarono sconosciuti. L'Angkar era una presenza onnipotente nella vita quotidiana: i suoi ordini indiscutibili. Guidava il popolo verso un "futuro migliore" esercitando il diritto di vita o di morte sui cittadini. La sicurezza rivoluzionaria era un'ossessione: «Meglio uccidere un innocente che lasciare in vita un colpevole». Il primo atto con cui i rivoluzionari si fecero conoscere fu l'abbandono forzato della capitale Phnom Penh da parte degli abitanti. Phnom Penh era una città gradevole, caratterizzata da un misto di architettura cambogiana e coloniale francese. Ma, per i khmer rossi, incarnava la corruzione: «La città è cattiva», dicevano, «perché c'è il denaro, dunque l'ineguaglianza. In città non coltivate il riso che mangiate». Così la popolazione urbana senza alcuna eccezione, compresi i malati degli ospedali, fu costretta a un drammatico esodo verso le campagne.
Era aprile, il mese caldo, e le condizioni di vita erano terribili per la marea umana in movimento. A un certo punto, gli ufficiali, gli intellettuali e il personale amministrativo vennero richiamati con un falso motivo e subito eliminati. Cominciava così l'applicazione del principio della purificazione della popolazione: prima quanti erano stati legati al passato regime, poi gli intellettuali (anche solo quelli che avevano gli occhiali) e quanti avevano gestito attività economiche, infine doveva scomparire chi non era inquadrabile nella classe dei contadini.
Bisognava insomma eliminare tutti i potenziali nemici. Nessuna rieducazione era possibile. Il sospetto, la delazione e il controllo assoluto dominavano la vita dei cambogiani, ormai collettivizzata in villaggi contadini. L'Angkar controllava tutto. La società fu ristrutturata per realizzare il socialismo contadino: abolito il denaro, si viveva in villaggi senza alcuna proprietà privata, si mangiava insieme, mentre la vita personale era ridotta a niente. I ragazzi, dai sei ai dodici anni, vivevano in case separate, educati dal partito: loro dovevano essere i protagonisti del futuro socialista, non deformati dal capitalismo come i loro genitori.
Una bambina dodicenne riuscì a fuggire. Avrebbe poi raccontato la sua testimonianza dolorosa in un libro, Il racconto di Peuw bambina cambogiana. Gli adulti erano costretti a sfibranti giornate di lavoro nei campi. Il popolo, ridotto a una massa di schiavi, però non rispondeva adeguatamente secondo Pol Pot. Questi, alla guida del sistema, già nel 1976 dichiarava: «Una malattia si annida nel partito... Noi cerchiamo i microbi che si annidano nel partito senza successo». Da qui, la follia di purghe, epurazioni ed esecuzioni alla ricerca del nemico da cui purificare la rivoluzione socialista. A Phnom Penh, il museo del genocidio è oggi allestito a Tuol Sleng, un carcere, dove sono state uccise circa 20.000 persone (ne sono sopravvissute solo sette, perché tutti erano condannati a morte). La prigione era uno snodo nel sistema concentrazionario. Vedendo le testimonianze di orrore e di sadismo in quegli ambienti, si misura la follia della "nuova civiltà" di Pol Pot e della banda dei sei. Il loro utopismo veniva da lontano. Pol Pot aveva conosciuto il marxismo durante gli studi in Francia e si era convinto che avrebbe potuto liberare la Cambogia dal controllo francese e ripristinare la pura civiltà khmer. Il suo potere sul Paese dura meno di quattro anni. Ma la sua visione crudele e priva di senso della realtà ha trasformato la Cambogia in un inferno.
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