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Le politiche sulle migrazioni devono partire dai giovani africani che usano Internet e il cellulare

Proviamo a guardare i migranti non solo dall'Europa, ma anche dai Paesi di provenienza, in particolare l'Africa. Non basta uno sguardo dal Nord. Tanto ripetere che bisogna sigillare le frontiere europee nasce proprio da una scarsa comprensione di storie, motivazioni e spinte dei migranti. Nel 2016 ne sono morti circa 5.000 nel Mediterraneo. È un dramma, cui non si può restare insensibili.
Non abbiamo visto nessun capo di Stato africano venire a Lampedusa a inchinarsi davanti alla morte di tanti connazionali. Infatti l'80% delle vittime in mare viene dai Paesi africani. Il fenomeno migratorio non è all'ordine del giorno della politica di molti Paesi africani. L'esodo è talvolta una valvola di sfogo per le tensioni politiche e sociali. I giovani, infatti, sono spesso il motore della contestazione contro poteri corrotti e immutabili. La vita dei giovani africani si sviluppa all'insegna dell'«esodo». Lasciano le campagne in modo massiccio per accalcarsi nelle città africane, le cui periferie sono formate spesso da baraccopoli, prive d'infrastrutture, acqua e fognature. Una città in sviluppo come Nairobi, in cui sono stati fatti importanti lavori urbani, cresce con un tasso insostenibile del 4,4% l'anno. Nelle città, manca lavoro e c'è poca industria. Nelle campagne si trova una qualche forma di lavoro. Ma ormai l'Africa del futuro pulsa in città: i1 40% della popolazione subsahariana vive qui. È un cambiamento avvenuto in breve tempo, che recide molti legami. L'esodo dei giovani in città è un modo di avvicinarsi al centro, dove pulsa la vita, e ci sono opportunità di studiare e lavorare. I giovani africani usano Internet e il cellulare: sono una generazione connessa e informata, molto meno periferica di quella delle indipendenze nazionali e del postcolonialismo. I figli delle indipendenze e degli anni successivi credevano nel proprio Paese, liberatosi dal dominio delle potenze europee: nazionalismo e socialismo africano costituivano un orizzonte di valori e di sogni.
Il centro della loro vita era in Africa. I miti dell'indipendenza sono crollati. I governanti si sono spesso rivelati poco all'altezza o corrotti. Già nel 1968, il romanziere ivoriano, Ahmadou Kourouma, denunciava la crisi degli Stati indipendenti, nel romanzo Les soleils des indépendances. L'Africa indipendente, nata con il sogno della giustizia al posto dello sfruttamento coloniale e con miti egualitari, ha invece registrato - negli ultimi decenni - la crescita di grandi ricchezze in mano a pochi e di larghe povertà per tanti. La delusione dei giovani africani verso la politica e, ancor più, verso il proprio Paese è palpabile. I giovani sono scettici sulla crescita delle società africane, puntano a uscire da situazioni bloccate e dalla diffusa disoccupazione. Eppure sono la vera ricchezza di queste società. In Malawi, i giovani, per dire che non hanno lavoro, usano un'espressione piena di rassegnazione: «I'm staying». Si diffonde tra i giovani la convinzione di vivere nella periferia del mondo e di non avere alcun futuro. Così matura, tra gente globale e molto mobile, il sogno di raggiungere il "centro": l'Europa. Circolano, tra loro, storie di successo di chi ce l'ha fatta, magari parenti e amici ora in Europa. Non mancano, certo, le narrazioni di dolori nei viaggi del deserto, nei campi di detenzione, come quelli libici, nelle traversate in mare. Ma la società non insiste su questo. E i giovani sognano e sperano. Spesso la famiglia mette insieme il necessario per l'«esodo». Il ritorno a casa, di chi ha tentato il "viaggio" senza successo, è umiliante. Del resto anche i ricchi promuovono la migrazione dei colletti bianchi, i loro figli, mandati a studiare e lavorare in America o in Europa. Perché restare? I giovani globalizzati non hanno fiducia nel destino comune dei loro Paesi. Per questo, una politica sulle migrazioni, se vuole essere efficace, deve concentrarsi sull'Africa, sul lavoro e sulla creazione di fiducia fra i giovani. I muri servono a poco e fanno male. 

Articolo di Andrea Riccardi sul magazine "Sette" del Corriere della Sera del 17 marzo 2017

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