Andrea Riccardi nella rubrica Religioni e civiltà del magazine Sette del Corriere della Sera, ripercorre la drammatica vicenda dei soldati italiani in Russia rievocata in un libro di M.Teresa Giusti, recentemente presentato alla Dante Alighieri.
La campagna di Russia fu presentata come una guerra di civiltà e di religione dai nazisti che la aprirono nel 1941 con il blitzkrieg, la guerra lampo della Germania contro l'Unione Sovietica. Mussolini voleva partecipare al banchetto della vittoria nell'Europa dell`Est e chiese insistentemente di combattere a fianco dei tedeschi. È la storia della sfortunata vicenda dei soldati italiani (raccontata in un bel libro di
Maria Teresa Giusti, La campagna di Russia, 1941-1943): quella del Corpo di spedizione italiano in Russia poi dell'Armir. Un disastro: partirono 229.000 uomini per la Russia e più di un terzo non fece ritorno, mentre dei circa 70.000 prigionieri in mano sovietica ne tornarono a casa solo 10.000. Gli ultimi furono liberati nel 1954. Intere famiglie hanno aspettato per anni il ritorno dei loro cari dall'Urss nella speranza che fossero sopravvissuti. Fu una lotta, non solo contro l'accanita resistenza e la controffensiva dei sovietici, ma anche contro il freddo dell'inverno: i soldati combatterono in condizioni d'impreparazione con calzature e vestiti inadatti. Il dolore di questa storia ha colpito l'immaginario degli italiani, dando luogo a una sconfinata memorialistica. Ricordo solamente quello di Giulio Bedeschi Centomila gavette di ghiaccio - che nel 1979 vendette un milione di copie - e quelli di Nuto Revelli e di Mario Rigoni Stern.
Hitler volle una campagna in un clima radicale e criminale - nota la Giusti - che portò ad un imbarbarimento delle truppe. Da qui, non solo i maltrattamenti della popolazione, ma anche le stragi di popoli che andavano decimati per fare spazio al dominio nazista che, al massimo, avrebbe avuto bisogno di schiavi. In una visione razzista, gli slavi erano Untermenschen, "sottouomini", la cui vita non valeva niente. Si pensi che un bielorusso su quattro è morto in guerra. Lo sguardo dei nazisti sugli "altri" era quello di un colonizzatore razzista, chiuso a ogni comprensione della realtà delle popolazioni occupate. Lo sguardo italiano, invece, nonostante la propaganda fascista e anticomunista, non era venato dal razzismo, anzi sorprendentemente empatico. Un soldato scrive riguardo ai polacchi: «I volti dei contadini sono smunti. I corpi alti e magrissimi, appena coperti di stracci. II loro sguardo rivela una sottomissione senza riserve». Ed aggiunge: «La loro fame è autentica: ma ormai sono avvezzi a soffrirla». C'è poi un dissenso italiano nei confronti del trattamento verso gli ebrei, «tutti accomunati sotto lo stesso giogo e sempre con i mastini tedeschi alle spalle». I bambini fanno pena: «Domandano pane a mani giunte». Intorno ai campi e agli ospedali degli italiani c'è quasi sempre popolazione locale che chiede aiuto. È poi considerato inaccettabile il trattamento dei prigionieri sovietici da parte dei tedeschi: questi «fattili sedere in mucchio, si erano messi a sparare ridendo, uccidendoli tutti». Ci furono anche crimini italiani, poi contestati dai sovietici, ma risulta evidente la differenza con i tedeschi nel rapporto con la gente del luogo, come si evince da tanta memorialistica e documentazione. Al momento della disfatta e della ritirata in condizioni terribili, gli italiani furono anche aiutati dalla popolazione per quel che poteva. Freddi furono invece i rapporti con i tedeschi, alleati ma quasi ostili.
Non voglio indulgere al mito dell'italiano "brava gente". Su questo sono intervenuto anche su Sette, mostrando come, pochi anni prima della spedizione in Russia, nel 1937, i militari fascisti furono criminali con gli etiopi, massacrando circa duemila persone nel monastero di Debre Libanos. Lì il crudele comando del maresciallo Graziani, il razzismo e la fascistizzazione esercitarono un'oscura influenza. In Russia era diverso. E si misurava già, nonostante ci fossero anche soldati volontari, il rifiuto latente della guerra, che si manifesta con forza l'8 settembre 1943. Emergevano anche i limiti della fascistizzazione, che seppure era stata intensa, non aveva alterato del tutto la capacità di vedere gli altri come propri simili. I contadini italiani, mandati a combattere tanto lontano da casa, dopo lunghe marce, scrivono con una certa pietà a proposito degli ucraini: «Povera gente che vive in uno stato medievale».
La campagna di Russia fu presentata come una guerra di civiltà e di religione dai nazisti che la aprirono nel 1941 con il blitzkrieg, la guerra lampo della Germania contro l'Unione Sovietica. Mussolini voleva partecipare al banchetto della vittoria nell'Europa dell`Est e chiese insistentemente di combattere a fianco dei tedeschi. È la storia della sfortunata vicenda dei soldati italiani (raccontata in un bel libro di
Maria Teresa Giusti, La campagna di Russia, 1941-1943): quella del Corpo di spedizione italiano in Russia poi dell'Armir. Un disastro: partirono 229.000 uomini per la Russia e più di un terzo non fece ritorno, mentre dei circa 70.000 prigionieri in mano sovietica ne tornarono a casa solo 10.000. Gli ultimi furono liberati nel 1954. Intere famiglie hanno aspettato per anni il ritorno dei loro cari dall'Urss nella speranza che fossero sopravvissuti. Fu una lotta, non solo contro l'accanita resistenza e la controffensiva dei sovietici, ma anche contro il freddo dell'inverno: i soldati combatterono in condizioni d'impreparazione con calzature e vestiti inadatti. Il dolore di questa storia ha colpito l'immaginario degli italiani, dando luogo a una sconfinata memorialistica. Ricordo solamente quello di Giulio Bedeschi Centomila gavette di ghiaccio - che nel 1979 vendette un milione di copie - e quelli di Nuto Revelli e di Mario Rigoni Stern.
Hitler volle una campagna in un clima radicale e criminale - nota la Giusti - che portò ad un imbarbarimento delle truppe. Da qui, non solo i maltrattamenti della popolazione, ma anche le stragi di popoli che andavano decimati per fare spazio al dominio nazista che, al massimo, avrebbe avuto bisogno di schiavi. In una visione razzista, gli slavi erano Untermenschen, "sottouomini", la cui vita non valeva niente. Si pensi che un bielorusso su quattro è morto in guerra. Lo sguardo dei nazisti sugli "altri" era quello di un colonizzatore razzista, chiuso a ogni comprensione della realtà delle popolazioni occupate. Lo sguardo italiano, invece, nonostante la propaganda fascista e anticomunista, non era venato dal razzismo, anzi sorprendentemente empatico. Un soldato scrive riguardo ai polacchi: «I volti dei contadini sono smunti. I corpi alti e magrissimi, appena coperti di stracci. II loro sguardo rivela una sottomissione senza riserve». Ed aggiunge: «La loro fame è autentica: ma ormai sono avvezzi a soffrirla». C'è poi un dissenso italiano nei confronti del trattamento verso gli ebrei, «tutti accomunati sotto lo stesso giogo e sempre con i mastini tedeschi alle spalle». I bambini fanno pena: «Domandano pane a mani giunte». Intorno ai campi e agli ospedali degli italiani c'è quasi sempre popolazione locale che chiede aiuto. È poi considerato inaccettabile il trattamento dei prigionieri sovietici da parte dei tedeschi: questi «fattili sedere in mucchio, si erano messi a sparare ridendo, uccidendoli tutti». Ci furono anche crimini italiani, poi contestati dai sovietici, ma risulta evidente la differenza con i tedeschi nel rapporto con la gente del luogo, come si evince da tanta memorialistica e documentazione. Al momento della disfatta e della ritirata in condizioni terribili, gli italiani furono anche aiutati dalla popolazione per quel che poteva. Freddi furono invece i rapporti con i tedeschi, alleati ma quasi ostili.
Non voglio indulgere al mito dell'italiano "brava gente". Su questo sono intervenuto anche su Sette, mostrando come, pochi anni prima della spedizione in Russia, nel 1937, i militari fascisti furono criminali con gli etiopi, massacrando circa duemila persone nel monastero di Debre Libanos. Lì il crudele comando del maresciallo Graziani, il razzismo e la fascistizzazione esercitarono un'oscura influenza. In Russia era diverso. E si misurava già, nonostante ci fossero anche soldati volontari, il rifiuto latente della guerra, che si manifesta con forza l'8 settembre 1943. Emergevano anche i limiti della fascistizzazione, che seppure era stata intensa, non aveva alterato del tutto la capacità di vedere gli altri come propri simili. I contadini italiani, mandati a combattere tanto lontano da casa, dopo lunghe marce, scrivono con una certa pietà a proposito degli ucraini: «Povera gente che vive in uno stato medievale».
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