L'integrazione è possibile, ma c`è bisogno di un modello che rifugga
dalla paura e dalla chiusura, valorizzando le piccole e grandi
esperienze positive già presenti e diffuse in tutt'Italia
Le migrazioni sono una delle grandi questioni del XXI secolo. I flussi di popolazioni, che si spostano nel mondo, riguardano ogni anno milioni di persone e toccano tutti i continenti. In Europa, stiamo vivendo solo una parte di quanto accade a livello globale, perché oggi non si emigra solo dal Sud del mondo verso il Nord, ma in ogni direzione. L'Africa è l'esempio di un continente i cui popoli sono in movimento nelle direzioni più varie. L'Italia, nel volgere di mezzo secolo, ha profondamente cambiato la sua posizione: da paese di migranti verso il mondo a paese che si sente assediato dai migranti. Non è un cambiamento da poco. Alla fine dell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento, tanti italiani hanno cercato un futuro fuori dai confini del giovane Regno d'Italia. Siamo stati un paese di emigranti. Questa storia ci ha segnato, con le tante opportunità che ha creato, ma anche con le molte sofferenze di chi si è avventurato lontano, fuori dai confini nazionali. Tanto è stato scritto sulle migrazioni italiane e non è qui il caso di ripercorrerne la bibliografia. Un bel museo delle migrazioni è sorto dal 2004 a Genova, «Galata - Museo del mare», nel porto antico, che testimonia questa storia con testi, immagini, racconti e ricostruzioni, vista con gli occhi di chi partiva dalla città ligure. significativo che il Museo ospiti da qualche anno una sezione particolare, «Memoria e Migrazioni», nella quale si racconta, oltre l'emigrazione italiana via mare del XIX e XX secolo anche la recente immigrazione verso l'Italia. E Genova è il punto di osservazione in cui si colloca il nostro autore, Doriano Saracino. Da paese di emigranti siamo divenuti un paese di immigrazione. Un cambiamento rapido e profondo, cui forse la popolazione italiana non è stata preparata da nessun investimento di tipo culturale o educativo. Una realtà su cui si è fatto fatica a registrarsi, tanto che, a differenza di altri paesi europei, non si è sviluppato un modello italiano d`integrazione. Anche le nostre leggi sull'immigrazione, nelle diverse redazioni di questi ultimi anni, poco tengono conto di una realtà in rapido cambiamento. Ne è testimonianza il ritardo con cui si è arrivati a discutere nel Parlamento della riforma della legge sulla cittadinanza con l'introduzione del cosiddetto ius soli temperato o ius culturae (come mi pare ben più corretto definire), che riconoscerebbe un diritto fondamentale a migliaia di minori (circa 800.000), figli di stranieri lungo-residenti in Italia. E un popolo di piccoli, già pienamente inseriti nella nostra società attraverso la scuola, ma a cui non viene riconosciuta la cittadinanza italiana e che quindi hanno un percorso separato dai loro coetanei fin dall'infanzia.
Giustamente Lucio Caracciolo ha affermato che, a differenza di altri popoli europei, gli italiani non hanno mai attribuito un valore pregante alla loro «cittadinanza» e lo mostrano anche oggi rifiutando un riconoscimento così importante ai figli dei migranti. La presenza ormai più che trentennale di stranieri in Italia dovrebbe invece stimolare nuove riflessioni e aprire nuove strade nel vasto campo dell`integrazione. Purtroppo siamo indietro. A partire dalla percezione del fenomeno da parte degli italiani. Molti studi e inchieste, infatti, mostrano come, nel nostro paese, la percezione degli immigrati sia molto distante dalla realtà, anzi esorbitante rispetto ad essa. Gli italiani conoscono poco gli stranieri che vivono con loro. Credono che i numeri della loro presenza siano molto più elevati, fanno fatica a orientarsi nel loro mondo religioso, sono convinti che i musulmani siano tantissimi, poco sanno del vero impatto economico (così positivo) della loro presenza sull`economia reale del paese.
Proprio in Italia, un paese dalla storia plurale, dalla cultura vivace e vitale, dalla secolare consuetudine all'incontro e al confronto con l'«altro», ci si sarebbe forse potuti aspettare un approccio ben diverso al fenomeno immigrazione. Uno sguardo più aperto e meno impaurito, un porsi intelligente e pragmatico... In un rapporto complesso e che si condiziona reciprocamente, l'opinione pubblica, i media, la politica si sono fatti cogliere impreparati di fronte a dinamiche che avrebbero potuto essere, se non previste, almeno affrontate progressivamente. Tra la fine del Novecento e questo scorcio di inizio millennio, si è spesso scelto di agitare lo spauracchio dell'immigrazione, vuoi per pigrizia mentale, vuoi per mero calcolo elettorale, dipingendo l`arrivo di chi era nato sotto un altro sole come una minaccia all`identità nazionale, come un processo da fermare prima che sia troppo tardi. Insomma una cultura della paura che si sposa a una politica della chiusura. Invece la bruciante tematica delle migrazioni reclama l'allargamento degli orizzonti tradizionali, il superamento di modi d'essere autoreferenziali e talvolta vittimisti. Spesso si è preferito rimuovere questa problematica, sperando che le cose si sistemassero da sole, come tante volte nel nostro millenario itinerario storico. Si temeva inoltre che mettersi a sollevare questioni, a cercare soluzioni, a indicare percorsi, avrebbe significato perdere consenso tra gli elettori. Mi diceva anni fa un politico della sinistra: «Al solo parlare di immigrati, si perdono voti!». Così, però, si è abdicato alla comprensione dei nostri giorni.
Nel cortocircuito tra silenzio e allarmismo si rischia di perdere la possibilità di un discorso serio, razionale, fattivo su un evento di portata mondiale, che sta segnando il nostro secolo. Non mettendo a tema in modo serio e responsabile l`immigrazione, si è mancato di valorizzare quelle piccole e grandi esperienze positive di accoglienza e di inclusione che punteggiano la Penisola e indicano un'integrazione possibile, radicata nel vissuto quotidiano degli italiani. Infatti, personalmente, conosco anche un'altra Italia, che non è quella della paura e della chiusura: è quella che ha accolto, a proprie spese e fattivamente, i rifugiati siriani, giunti nel nostro paese grazie ai corridoi umanitari, aperti dalla Comunità di Sant'Egidio e dai protestanti italiani. Tra le esperienze positive, spicca pure la capacità del sistema formativo, cioè della scuola, di plasmare nuovi italiani. Sì, l'integrazione è possibile. Già ora. Sotto traccia, mentre la rimozione o i toni emergenziali si contendevano gli umori del paese, tanti - giovanissimi, giovani e meno giovani, bambini, adolescenti, adulti - si sono avviati a un incontro costruttivo con la società italiana, con la guida di molti docenti, così intelligenti e sensibili, quanto sottostimati. I'« altro» si è fatto sempre meno differente, meno «altro», e sempre più simile al «noi», peraltro da sempre plurale, della Penisola. Oltre alla scuola si sono sviluppate forme di integrazione ben riuscite nelle famiglie (per il fenomeno delle badanti), in molti luoghi di lavoro, nei servizi alla persona. Molto è stato fatto dal mondo associativo cristiano e laico, dal vasto mondo del volontariato, dai sindacati e da altri soggetti, per favorire una reale integrazione degli stranieri. Generalmente si potrebbe parlare di un modello affidato alla buona volontà e al senso umano delle persone che in tante situazioni ha avuto successo.
Anticipiamo in questa pagina la prefazione di Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio, al libro di Doriano Saracino "Ringrazio che siamo vivi. Giovani stranieri in carcere" (Jaca Book, pagine 384, euro 20). Un viaggio nelle prigioni con il più alto numero di stranieri per incontrare ragazzi che vivono a metà tra due mondi: un Paese di origine a cui non appartengono più e un`Italia che li ha cambiati più di quanto si aspettavano. Molti sono arrivati come minori non accompagnati, altri sono una seconda generazione mancata, che non ha portato a termine l`integrazione. Nel carcere un passato difficile si intreccia con un presente di coabitazione ricco di sfide. Il libro accosta il tema del carcere a quello degli stranieri, senza cadere in facili schematismi, ma privilegiando l'ottica del reinserimento.
Per gentile concessione del quotidiano Avvenire che ha pubblicato questo testo il 23 settembre 2017
Le migrazioni sono una delle grandi questioni del XXI secolo. I flussi di popolazioni, che si spostano nel mondo, riguardano ogni anno milioni di persone e toccano tutti i continenti. In Europa, stiamo vivendo solo una parte di quanto accade a livello globale, perché oggi non si emigra solo dal Sud del mondo verso il Nord, ma in ogni direzione. L'Africa è l'esempio di un continente i cui popoli sono in movimento nelle direzioni più varie. L'Italia, nel volgere di mezzo secolo, ha profondamente cambiato la sua posizione: da paese di migranti verso il mondo a paese che si sente assediato dai migranti. Non è un cambiamento da poco. Alla fine dell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento, tanti italiani hanno cercato un futuro fuori dai confini del giovane Regno d'Italia. Siamo stati un paese di emigranti. Questa storia ci ha segnato, con le tante opportunità che ha creato, ma anche con le molte sofferenze di chi si è avventurato lontano, fuori dai confini nazionali. Tanto è stato scritto sulle migrazioni italiane e non è qui il caso di ripercorrerne la bibliografia. Un bel museo delle migrazioni è sorto dal 2004 a Genova, «Galata - Museo del mare», nel porto antico, che testimonia questa storia con testi, immagini, racconti e ricostruzioni, vista con gli occhi di chi partiva dalla città ligure. significativo che il Museo ospiti da qualche anno una sezione particolare, «Memoria e Migrazioni», nella quale si racconta, oltre l'emigrazione italiana via mare del XIX e XX secolo anche la recente immigrazione verso l'Italia. E Genova è il punto di osservazione in cui si colloca il nostro autore, Doriano Saracino. Da paese di emigranti siamo divenuti un paese di immigrazione. Un cambiamento rapido e profondo, cui forse la popolazione italiana non è stata preparata da nessun investimento di tipo culturale o educativo. Una realtà su cui si è fatto fatica a registrarsi, tanto che, a differenza di altri paesi europei, non si è sviluppato un modello italiano d`integrazione. Anche le nostre leggi sull'immigrazione, nelle diverse redazioni di questi ultimi anni, poco tengono conto di una realtà in rapido cambiamento. Ne è testimonianza il ritardo con cui si è arrivati a discutere nel Parlamento della riforma della legge sulla cittadinanza con l'introduzione del cosiddetto ius soli temperato o ius culturae (come mi pare ben più corretto definire), che riconoscerebbe un diritto fondamentale a migliaia di minori (circa 800.000), figli di stranieri lungo-residenti in Italia. E un popolo di piccoli, già pienamente inseriti nella nostra società attraverso la scuola, ma a cui non viene riconosciuta la cittadinanza italiana e che quindi hanno un percorso separato dai loro coetanei fin dall'infanzia.
Giustamente Lucio Caracciolo ha affermato che, a differenza di altri popoli europei, gli italiani non hanno mai attribuito un valore pregante alla loro «cittadinanza» e lo mostrano anche oggi rifiutando un riconoscimento così importante ai figli dei migranti. La presenza ormai più che trentennale di stranieri in Italia dovrebbe invece stimolare nuove riflessioni e aprire nuove strade nel vasto campo dell`integrazione. Purtroppo siamo indietro. A partire dalla percezione del fenomeno da parte degli italiani. Molti studi e inchieste, infatti, mostrano come, nel nostro paese, la percezione degli immigrati sia molto distante dalla realtà, anzi esorbitante rispetto ad essa. Gli italiani conoscono poco gli stranieri che vivono con loro. Credono che i numeri della loro presenza siano molto più elevati, fanno fatica a orientarsi nel loro mondo religioso, sono convinti che i musulmani siano tantissimi, poco sanno del vero impatto economico (così positivo) della loro presenza sull`economia reale del paese.
Proprio in Italia, un paese dalla storia plurale, dalla cultura vivace e vitale, dalla secolare consuetudine all'incontro e al confronto con l'«altro», ci si sarebbe forse potuti aspettare un approccio ben diverso al fenomeno immigrazione. Uno sguardo più aperto e meno impaurito, un porsi intelligente e pragmatico... In un rapporto complesso e che si condiziona reciprocamente, l'opinione pubblica, i media, la politica si sono fatti cogliere impreparati di fronte a dinamiche che avrebbero potuto essere, se non previste, almeno affrontate progressivamente. Tra la fine del Novecento e questo scorcio di inizio millennio, si è spesso scelto di agitare lo spauracchio dell'immigrazione, vuoi per pigrizia mentale, vuoi per mero calcolo elettorale, dipingendo l`arrivo di chi era nato sotto un altro sole come una minaccia all`identità nazionale, come un processo da fermare prima che sia troppo tardi. Insomma una cultura della paura che si sposa a una politica della chiusura. Invece la bruciante tematica delle migrazioni reclama l'allargamento degli orizzonti tradizionali, il superamento di modi d'essere autoreferenziali e talvolta vittimisti. Spesso si è preferito rimuovere questa problematica, sperando che le cose si sistemassero da sole, come tante volte nel nostro millenario itinerario storico. Si temeva inoltre che mettersi a sollevare questioni, a cercare soluzioni, a indicare percorsi, avrebbe significato perdere consenso tra gli elettori. Mi diceva anni fa un politico della sinistra: «Al solo parlare di immigrati, si perdono voti!». Così, però, si è abdicato alla comprensione dei nostri giorni.
Nel cortocircuito tra silenzio e allarmismo si rischia di perdere la possibilità di un discorso serio, razionale, fattivo su un evento di portata mondiale, che sta segnando il nostro secolo. Non mettendo a tema in modo serio e responsabile l`immigrazione, si è mancato di valorizzare quelle piccole e grandi esperienze positive di accoglienza e di inclusione che punteggiano la Penisola e indicano un'integrazione possibile, radicata nel vissuto quotidiano degli italiani. Infatti, personalmente, conosco anche un'altra Italia, che non è quella della paura e della chiusura: è quella che ha accolto, a proprie spese e fattivamente, i rifugiati siriani, giunti nel nostro paese grazie ai corridoi umanitari, aperti dalla Comunità di Sant'Egidio e dai protestanti italiani. Tra le esperienze positive, spicca pure la capacità del sistema formativo, cioè della scuola, di plasmare nuovi italiani. Sì, l'integrazione è possibile. Già ora. Sotto traccia, mentre la rimozione o i toni emergenziali si contendevano gli umori del paese, tanti - giovanissimi, giovani e meno giovani, bambini, adolescenti, adulti - si sono avviati a un incontro costruttivo con la società italiana, con la guida di molti docenti, così intelligenti e sensibili, quanto sottostimati. I'« altro» si è fatto sempre meno differente, meno «altro», e sempre più simile al «noi», peraltro da sempre plurale, della Penisola. Oltre alla scuola si sono sviluppate forme di integrazione ben riuscite nelle famiglie (per il fenomeno delle badanti), in molti luoghi di lavoro, nei servizi alla persona. Molto è stato fatto dal mondo associativo cristiano e laico, dal vasto mondo del volontariato, dai sindacati e da altri soggetti, per favorire una reale integrazione degli stranieri. Generalmente si potrebbe parlare di un modello affidato alla buona volontà e al senso umano delle persone che in tante situazioni ha avuto successo.
Anticipiamo in questa pagina la prefazione di Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio, al libro di Doriano Saracino "Ringrazio che siamo vivi. Giovani stranieri in carcere" (Jaca Book, pagine 384, euro 20). Un viaggio nelle prigioni con il più alto numero di stranieri per incontrare ragazzi che vivono a metà tra due mondi: un Paese di origine a cui non appartengono più e un`Italia che li ha cambiati più di quanto si aspettavano. Molti sono arrivati come minori non accompagnati, altri sono una seconda generazione mancata, che non ha portato a termine l`integrazione. Nel carcere un passato difficile si intreccia con un presente di coabitazione ricco di sfide. Il libro accosta il tema del carcere a quello degli stranieri, senza cadere in facili schematismi, ma privilegiando l'ottica del reinserimento.
Per gentile concessione del quotidiano Avvenire che ha pubblicato questo testo il 23 settembre 2017
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