Le periferie segnate dall'abbandono sono invece il luogo da cui dipende la qualità umana delle nostre città
A Via Forìa, nel cuore di Napoli, un ragazzo di 17 anni è stato aggredito a coltellate da una baby gang. Non è un caso unico. Si può spiegare la vicenda, dicendo che, nella città partenopea, il degrado è profondo e che la camorra è stata una scuola per troppi ragazzi. Ma questa spiegazione non è sufficiente. La situazione di Napoli è ben illustrata nelle pagine del nostro giornale: è particolare, ma non unica in Italia e al mondo. I ragazzi sono la parte più fragile del tessuto sociale delle periferie o dei quartieri degradati (periferici anch’essi, pure se al centro).
La nostra attenzione, distratta dai fuochi d’artificio prima della campagna elettorale, deve concentrarsi su un tema da cui dipende la qualità umana delle nostre città: le periferie e i periferici. Renzo Piano ha proposto di passare a una fase nuova di “rammendo” delle periferie. Ma ammonisce a proposito di queste: “se non diventeranno città allora saranno guai grossi”. E i guai si cominciano a vedere. Le periferie sono segnate dall’abbandono, mentre chi può le fugge e si rifugia in compound protetti, tra verde, muri e guardie. Questo fenomeno avviene già nelle megalopoli del Sud del mondo, come São Paulo o Johannesburg, dove le immense periferie sono una non-città e i benestanti si ritagliano le loro nicchie.
Così muore l’idea e la realtà della nostra storica città europea, dove le case dei ricchi non erano così distanti da quelle dei poveri: dove sulla piazza ci s’incontrava in prossimità dei palazzi del governo civico o della cattedrale. Si frantuma del tutto l’appartenenza al destino comune della città. Questo è il dramma del mondo globale: ormai un universo di città. Ma le città globali sono spesso fatte in gran parte dalle periferie. Ben il 71,9% della popolazione dell’Africa subsahariana abita in slum. Il mondo globale sarà il mondo delle periferie anonime e abbandonate a fronte di un ristretto numero di privilegiati ben protetti? Non si tratta di problemi lontani, ma sono anche nostri. Non si può scartare una parte cospicua della città e sperare di uscirne bene. Su questo si gioca la nostra civiltà europea.
Nelle periferie, dove sono scomparse le reti dei partiti e dei sindacati, non si vive nel vuoto. La Chiesa spesso resta un’isola nel deserto di presenze. Le mafie s’insinuano nel vuoto sociale e la violenza diventa una proposta per i giovani. Lo si vede in Centro America con lo spietato controllo sul territorio delle maras, mafie giovanili violente. Il problema delle periferie non può essere risolto solo nella prospettiva della legalità e della sicurezza, certo molto importanti. Ci vuole una nuova passione civile, volontaria e educativa da parte dell’intera società verso le periferie e i periferici. C’è un tessuto sociale da ricostruire: un’impresa che richiede diversi approcci, ma un grande impegno generale, quasi un’alleanza. Papa Francesco, che viene da una megalopoli dell’America Latina, ha più volte posto all’attenzione la priorità delle periferie e dei periferici. A partire dal suo messaggio, di fronte a tante emergenza, occorre subito passione e intelligenza che presto muovano all’azione per la rinascita delle periferie.
La nostra attenzione, distratta dai fuochi d’artificio prima della campagna elettorale, deve concentrarsi su un tema da cui dipende la qualità umana delle nostre città: le periferie e i periferici. Renzo Piano ha proposto di passare a una fase nuova di “rammendo” delle periferie. Ma ammonisce a proposito di queste: “se non diventeranno città allora saranno guai grossi”. E i guai si cominciano a vedere. Le periferie sono segnate dall’abbandono, mentre chi può le fugge e si rifugia in compound protetti, tra verde, muri e guardie. Questo fenomeno avviene già nelle megalopoli del Sud del mondo, come São Paulo o Johannesburg, dove le immense periferie sono una non-città e i benestanti si ritagliano le loro nicchie.
Così muore l’idea e la realtà della nostra storica città europea, dove le case dei ricchi non erano così distanti da quelle dei poveri: dove sulla piazza ci s’incontrava in prossimità dei palazzi del governo civico o della cattedrale. Si frantuma del tutto l’appartenenza al destino comune della città. Questo è il dramma del mondo globale: ormai un universo di città. Ma le città globali sono spesso fatte in gran parte dalle periferie. Ben il 71,9% della popolazione dell’Africa subsahariana abita in slum. Il mondo globale sarà il mondo delle periferie anonime e abbandonate a fronte di un ristretto numero di privilegiati ben protetti? Non si tratta di problemi lontani, ma sono anche nostri. Non si può scartare una parte cospicua della città e sperare di uscirne bene. Su questo si gioca la nostra civiltà europea.
Nelle periferie, dove sono scomparse le reti dei partiti e dei sindacati, non si vive nel vuoto. La Chiesa spesso resta un’isola nel deserto di presenze. Le mafie s’insinuano nel vuoto sociale e la violenza diventa una proposta per i giovani. Lo si vede in Centro America con lo spietato controllo sul territorio delle maras, mafie giovanili violente. Il problema delle periferie non può essere risolto solo nella prospettiva della legalità e della sicurezza, certo molto importanti. Ci vuole una nuova passione civile, volontaria e educativa da parte dell’intera società verso le periferie e i periferici. C’è un tessuto sociale da ricostruire: un’impresa che richiede diversi approcci, ma un grande impegno generale, quasi un’alleanza. Papa Francesco, che viene da una megalopoli dell’America Latina, ha più volte posto all’attenzione la priorità delle periferie e dei periferici. A partire dal suo messaggio, di fronte a tante emergenza, occorre subito passione e intelligenza che presto muovano all’azione per la rinascita delle periferie.
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