Un editoriale di Andrea Riccardi sulle proteste nel grande paese a maggioranza sciita.
L'Iran è un grande Paese (77 milioni di abitanti) con una lunga storia. Un Paese ricco di risorse, complesso e con una grande cultura. È il cuore del mondo sciita, anche se importanti santuari e autorità religiose di questa confessione sono anche in Iraq.
Quasi quarant'anni fa, nel 1979, con il ritorno dall'esilio dell'imam Khomeini, si instaurò un regime atipico: democratico nelle istituzioni, ma controllato dall'autorità religiosa, la "guida suprema". Prima Khomeini e dal 1989 Khamenei. Da lui dipendono l'esercito dei pasdaran della rivoluzione, vasti interessi economici (si parla di più del 30% dell'economia), parecchie fondazioni pie con forti disponibilità finanziarie e una vasta rete sociale. Khamenei influenza anche la politica estera. E l'Iran guida lo scontro con i sunniti: in Yemen, Iraq, Siria e Libano. Una politica spesso di successo, ma con un costo economico.
Preoccupanti sono le posizioni iraniane, totalmente ostili verso Israele (allarmato peraltro dalla presenza iraniana o degli hezbollah in Siria, specie nel Sud). Il 1979 rivelò la forza dell'islamismo politico, divenuto un modello nel mondo musulmano. Oggi molti iraniani non appoggiano lo Stato confessionale. Per la seconda volta dopo il 2013 hanno votato il presidente Rouhani, piuttosto liberale. È lui che ha stretto l'accordo sul nucleare, premessa necessaria per la fine delle sanzioni e dell'isolamento dell'Iran.
Le elezioni del 2017 hanno rivelato una voglia di cambiamento. Ma l'azione del presidente non ha avuto impatto sulla qualità della vita. Trova anche limiti nel potere religioso. Il regime, considerato corrotto e oppressivo, è stato più volte contestato: nel 2009 dalla classe media, ora da molti, soprattutto dai diseredati, a Teheran e in provincia (pur senza capi e organizzazione). Si chiede un cambiamento sociale: la protesta è anche contro le spese per la guerra in Siria e Iraq o per gli hezbollah libanesi (sciiti), che impediscono di migliorare la vita in Iran. L'orgoglio nazional-religioso iraniano non è un collante sociale. I giovani non si sacrificano più come al tempo della sanguinosa guerra con l'Iraq, dal 1980 al 1988. Intanto la propaganda del regime accusa interferenze straniere dietro le proteste. Più equilibrata appare la posizione di Rouhani, anche se tiene conto dell'opinione dell'autorità religiosa. D'altra parte, sullo scenario internazionale il presidente Trump contesta l'accordo nucleare con l'Iran, un successo di Rouhani. La situazione è tutt'altro che facile. Si parla già di mille manifestanti arrestati e di 21 morti. La repressione, come quella dei pasdaran, probabilmente spegnerà la contestazione. Viene da chiedersi fino a quando.
L'Iran è un grande Paese (77 milioni di abitanti) con una lunga storia. Un Paese ricco di risorse, complesso e con una grande cultura. È il cuore del mondo sciita, anche se importanti santuari e autorità religiose di questa confessione sono anche in Iraq.
Quasi quarant'anni fa, nel 1979, con il ritorno dall'esilio dell'imam Khomeini, si instaurò un regime atipico: democratico nelle istituzioni, ma controllato dall'autorità religiosa, la "guida suprema". Prima Khomeini e dal 1989 Khamenei. Da lui dipendono l'esercito dei pasdaran della rivoluzione, vasti interessi economici (si parla di più del 30% dell'economia), parecchie fondazioni pie con forti disponibilità finanziarie e una vasta rete sociale. Khamenei influenza anche la politica estera. E l'Iran guida lo scontro con i sunniti: in Yemen, Iraq, Siria e Libano. Una politica spesso di successo, ma con un costo economico.
Preoccupanti sono le posizioni iraniane, totalmente ostili verso Israele (allarmato peraltro dalla presenza iraniana o degli hezbollah in Siria, specie nel Sud). Il 1979 rivelò la forza dell'islamismo politico, divenuto un modello nel mondo musulmano. Oggi molti iraniani non appoggiano lo Stato confessionale. Per la seconda volta dopo il 2013 hanno votato il presidente Rouhani, piuttosto liberale. È lui che ha stretto l'accordo sul nucleare, premessa necessaria per la fine delle sanzioni e dell'isolamento dell'Iran.
Le elezioni del 2017 hanno rivelato una voglia di cambiamento. Ma l'azione del presidente non ha avuto impatto sulla qualità della vita. Trova anche limiti nel potere religioso. Il regime, considerato corrotto e oppressivo, è stato più volte contestato: nel 2009 dalla classe media, ora da molti, soprattutto dai diseredati, a Teheran e in provincia (pur senza capi e organizzazione). Si chiede un cambiamento sociale: la protesta è anche contro le spese per la guerra in Siria e Iraq o per gli hezbollah libanesi (sciiti), che impediscono di migliorare la vita in Iran. L'orgoglio nazional-religioso iraniano non è un collante sociale. I giovani non si sacrificano più come al tempo della sanguinosa guerra con l'Iraq, dal 1980 al 1988. Intanto la propaganda del regime accusa interferenze straniere dietro le proteste. Più equilibrata appare la posizione di Rouhani, anche se tiene conto dell'opinione dell'autorità religiosa. D'altra parte, sullo scenario internazionale il presidente Trump contesta l'accordo nucleare con l'Iran, un successo di Rouhani. La situazione è tutt'altro che facile. Si parla già di mille manifestanti arrestati e di 21 morti. La repressione, come quella dei pasdaran, probabilmente spegnerà la contestazione. Viene da chiedersi fino a quando.
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