Parole chiave? «Preghiera», «poveri», «pace», «bambini», «anziani»,
«disabili», «migranti», «senza dimora», «carcere». Insomma, Sant'Egidio:
«movimento internazionale di laici» fondato nel 1968 dall'allora
diciottenne Andrea Riccardi, accademico romano, storico della Chiesa.
Andrea Riccardi "Sicilia, terra di accoglienza. Da voi mi sento a casa"
Intervista di Salvatore Falzone (apparsa su Repubblica edizione Sicilia, 8 aprile 2018)
Parole chiave? «Preghiera», «poveri», «pace», «bambini», «anziani», «disabili», «migranti», «senza dimora», «carcere», «pranzo di Natale», «ecosolidarietà», «solidarietà e emergenze»... Insomma, Sant'Egidio: «movimento internazionale di laici» fondato nel 1968 dall'allora diciottenne Andrea Riccardi, accademico romano, storico della Chiesa e del cristianesimo, studioso di papi novecenteschi, conoscitore dei sacri palazzi, ministro per la Cooperazione internazionale e l'Integrazione al tempo del governo Monti («ministro in uno stato di emergenza dell'Italia», precisa). Nata sulle sponde consiliari del Tevere e ormai presente in più di settanta paesi del mondo, la Comunità è sbarcata a Palermo alla fine degli anni Ottanta: pasti caldi per i senzatetto, servizio docce, cambio di vestiti, una boutique solidale, partnership con Opere Pie, una Scuola della Pace per i minori del quartiere Capo. Progetti, progetti, progetti...
Così Sant'Egidio ha piantato bandiera ai piedi del Monte Pellegrino, dove ancora aleggia lo spirito di Giacomo Cusmano, il padre del Boccone del Povero che infiammò la Sicilia ottocentesca con la sua folle carità. Un filo lega il passato al presente di questa città? «Sì, il Vangelo» risponde Riccardi. Anche da queste parti, con buona pace del Principe di Salina, la "buona notizia" assicura che "tutto può cambiare", come recita il titolo dell'ultimo libro del professore uscito per i tipi di San Paolo e ancora fresco di stampa: una conversazione con il teologo siciliano Massimo Naro a partire da Sant'Egidio, un maieutico scambio di vedute sulle cose, sull'«arte della solidarietà», sulla «trincea della pace» e «la pazienza della mediazione», sul futuro e su un «cristianesimo dai pensieri lunghi», sulla «comunità di popolo, tra sogno e visione». E sull'entusiasmante fatica di percorrere il binario che porta a ogni sud, verso «le periferie più scomode». Rieccoci in Sicilia, avamposto «molto importante» dell'esercito mondiale di Sant'Egidio che festeggia quest'anno i suoi cinquant'anni.
«Non solo - spiega Riccardi perché la comunità vi è radicata: a Palermo, Messina, Catania e altrove. Ma perché la Sicilia è una regione connaturale». Cioè? «È una realtà mediterranea, sta in mezzo tra il nord e il sud, tra cristianesimo e islam. Una realtà in cui esiste ancora una dimensione di vita di popolo. In questo si rivela il senso del rapporto con migranti e rifugiati: la Sicilia è una terra più accogliente di altre regione italiane. E poi c'è qualcosa nella cultura, nella storia, vorrei dire
nel genio...».
In che misura Sant'Egidio si è lasciata interpellare dal dramma degli sbarchi sulle nostre coste? «Lavoriamo moltissimo per l'accoglienza. E cerchiamo in tutti i modi di abbattere la logica del muro. L'idea dello sbarco è l'idea di un archetipo».
In che senso? «È lo sbarco dei saraceni, degli stranieri... Un'idea che fa nascere la paura. Noi crediamo invece nei corridoi umanitari, nell'accoglienza e nell'integrazione di queste persone fragili. Non dobbiamo avere paura della pluralità. Occorre cura, amicizia, attenzione, prudenza e sapienza. Naturalmente vanno favorite le condizioni di legalità e sicurezza».
A settembre scorso Sant'Egidio ha promosso a Catania una scuola d'italiano per rifugiati. Non solo accoglienza, dunque. Qual è il senso autentico di questo andare oltre i bisogni di sussistenza? «Offrire la lingua è offrire la chiave per l'integrazione, vero punto debole dell'Europa. I nostri
amici di Catania lo sanno bene: l'accoglienza dopo gli sbarchi è un dovere. Ma per l'integrazione è necessaria la lingua».
Da Catania a Palermo. Cosa rappresenta per lei il capoluogo siciliano? «Un luogo di amicizie, incontri, esperienze personali e culturali. La frequentavo soprattutto ai tempi di Cataldo Naro (arcivescovo di Monreale scomparso nel 2006 e, prima ancora, preside della Facoltà teologica di Sicilia, ndr). Ci sono città in cui ci si sente a casa e altre che, almeno inizialmente, appaiono straniere. A Palermo mi trovo a casa, forse per il suo carattere aperto e mediterraneo».
Tavoli apparecchiati al posto delle panche nella chiesa di Santa Lucia Badia del monte in via Ruggero Settimo e nella chiesa di Santa Maria di Gesù al Capo. Seicento poveri al pranzo di Natale 2017. Che significa - fuori d'ogni retorica - condividere il pasto con i poveri tra le colonne di una chiesa? «Significa festa di un legame quotidiano. Non è un atto di spettacolo ma un momento
solenne in cui i poveri sono al centro del Natale. I poveri sono gli amici della Comunità. E lo sono tutto l'anno, non solo a Natale».
Da storico le sembra di poter cogliere una peculiarità della Chiesa siciliana? «È una Chiesa di popolo. Non solo perché la gente frequenta la Chiesa più che altrove. Ma perché la Chiesa siciliana ha vissuto una storia molto particolare. Bisogna discernere le tante eredità nel suo profondo. A maggior ragione oggi, al tempo di Papa Francesco, occorre capire cosa vuol dire realmente Chiesa di popolo, come far parlare il popolo e come cogliere il messaggio proveniente dalle viscere di questo popolo».
Quanto è faticoso il confronto con le istituzioni ecclesiali e statali? «I rapporti veri sono tutti belli e impegnativi. Ogni prospettiva istituzionale è fatica. Certo è arrivato il momento di uscire dalla logica dell'emergenza e costruire insieme la società di domani».
Come? «Con speranza e fede, ma insieme anche a fraternità e realismo umano».
Il libro Tutto può cambiare
L'ultimo
libro di Andrea Riccardi pubblicato con le Edizioni San Paolo è una
conversazione con il teologo Massimo Naro. Il volume viene presentato
martedì alle 17 a Catania a Santa Maria della Catena. Con gli autori interverranno l'arcivescovo Corrado Lorefice e Carmelo Torcivia.
la Comunità di Sant'Egidio che alla fine degli anni Ottanta è arrivata anche in Sicilia Storico della Chiesa e accademico romano, è stato anche ministro nel governo Monti
Andrea Riccardi "Sicilia, terra di accoglienza. Da voi mi sento a casa"
Intervista di Salvatore Falzone (apparsa su Repubblica edizione Sicilia, 8 aprile 2018)
Parole chiave? «Preghiera», «poveri», «pace», «bambini», «anziani», «disabili», «migranti», «senza dimora», «carcere», «pranzo di Natale», «ecosolidarietà», «solidarietà e emergenze»... Insomma, Sant'Egidio: «movimento internazionale di laici» fondato nel 1968 dall'allora diciottenne Andrea Riccardi, accademico romano, storico della Chiesa e del cristianesimo, studioso di papi novecenteschi, conoscitore dei sacri palazzi, ministro per la Cooperazione internazionale e l'Integrazione al tempo del governo Monti («ministro in uno stato di emergenza dell'Italia», precisa). Nata sulle sponde consiliari del Tevere e ormai presente in più di settanta paesi del mondo, la Comunità è sbarcata a Palermo alla fine degli anni Ottanta: pasti caldi per i senzatetto, servizio docce, cambio di vestiti, una boutique solidale, partnership con Opere Pie, una Scuola della Pace per i minori del quartiere Capo. Progetti, progetti, progetti...
Così Sant'Egidio ha piantato bandiera ai piedi del Monte Pellegrino, dove ancora aleggia lo spirito di Giacomo Cusmano, il padre del Boccone del Povero che infiammò la Sicilia ottocentesca con la sua folle carità. Un filo lega il passato al presente di questa città? «Sì, il Vangelo» risponde Riccardi. Anche da queste parti, con buona pace del Principe di Salina, la "buona notizia" assicura che "tutto può cambiare", come recita il titolo dell'ultimo libro del professore uscito per i tipi di San Paolo e ancora fresco di stampa: una conversazione con il teologo siciliano Massimo Naro a partire da Sant'Egidio, un maieutico scambio di vedute sulle cose, sull'«arte della solidarietà», sulla «trincea della pace» e «la pazienza della mediazione», sul futuro e su un «cristianesimo dai pensieri lunghi», sulla «comunità di popolo, tra sogno e visione». E sull'entusiasmante fatica di percorrere il binario che porta a ogni sud, verso «le periferie più scomode». Rieccoci in Sicilia, avamposto «molto importante» dell'esercito mondiale di Sant'Egidio che festeggia quest'anno i suoi cinquant'anni.
«Non solo - spiega Riccardi perché la comunità vi è radicata: a Palermo, Messina, Catania e altrove. Ma perché la Sicilia è una regione connaturale». Cioè? «È una realtà mediterranea, sta in mezzo tra il nord e il sud, tra cristianesimo e islam. Una realtà in cui esiste ancora una dimensione di vita di popolo. In questo si rivela il senso del rapporto con migranti e rifugiati: la Sicilia è una terra più accogliente di altre regione italiane. E poi c'è qualcosa nella cultura, nella storia, vorrei dire
nel genio...».
In che misura Sant'Egidio si è lasciata interpellare dal dramma degli sbarchi sulle nostre coste? «Lavoriamo moltissimo per l'accoglienza. E cerchiamo in tutti i modi di abbattere la logica del muro. L'idea dello sbarco è l'idea di un archetipo».
In che senso? «È lo sbarco dei saraceni, degli stranieri... Un'idea che fa nascere la paura. Noi crediamo invece nei corridoi umanitari, nell'accoglienza e nell'integrazione di queste persone fragili. Non dobbiamo avere paura della pluralità. Occorre cura, amicizia, attenzione, prudenza e sapienza. Naturalmente vanno favorite le condizioni di legalità e sicurezza».
A settembre scorso Sant'Egidio ha promosso a Catania una scuola d'italiano per rifugiati. Non solo accoglienza, dunque. Qual è il senso autentico di questo andare oltre i bisogni di sussistenza? «Offrire la lingua è offrire la chiave per l'integrazione, vero punto debole dell'Europa. I nostri
amici di Catania lo sanno bene: l'accoglienza dopo gli sbarchi è un dovere. Ma per l'integrazione è necessaria la lingua».
Da Catania a Palermo. Cosa rappresenta per lei il capoluogo siciliano? «Un luogo di amicizie, incontri, esperienze personali e culturali. La frequentavo soprattutto ai tempi di Cataldo Naro (arcivescovo di Monreale scomparso nel 2006 e, prima ancora, preside della Facoltà teologica di Sicilia, ndr). Ci sono città in cui ci si sente a casa e altre che, almeno inizialmente, appaiono straniere. A Palermo mi trovo a casa, forse per il suo carattere aperto e mediterraneo».
Tavoli apparecchiati al posto delle panche nella chiesa di Santa Lucia Badia del monte in via Ruggero Settimo e nella chiesa di Santa Maria di Gesù al Capo. Seicento poveri al pranzo di Natale 2017. Che significa - fuori d'ogni retorica - condividere il pasto con i poveri tra le colonne di una chiesa? «Significa festa di un legame quotidiano. Non è un atto di spettacolo ma un momento
solenne in cui i poveri sono al centro del Natale. I poveri sono gli amici della Comunità. E lo sono tutto l'anno, non solo a Natale».
Da storico le sembra di poter cogliere una peculiarità della Chiesa siciliana? «È una Chiesa di popolo. Non solo perché la gente frequenta la Chiesa più che altrove. Ma perché la Chiesa siciliana ha vissuto una storia molto particolare. Bisogna discernere le tante eredità nel suo profondo. A maggior ragione oggi, al tempo di Papa Francesco, occorre capire cosa vuol dire realmente Chiesa di popolo, come far parlare il popolo e come cogliere il messaggio proveniente dalle viscere di questo popolo».
Quanto è faticoso il confronto con le istituzioni ecclesiali e statali? «I rapporti veri sono tutti belli e impegnativi. Ogni prospettiva istituzionale è fatica. Certo è arrivato il momento di uscire dalla logica dell'emergenza e costruire insieme la società di domani».
Come? «Con speranza e fede, ma insieme anche a fraternità e realismo umano».
Il libro Tutto può cambiare
la Comunità di Sant'Egidio che alla fine degli anni Ottanta è arrivata anche in Sicilia Storico della Chiesa e accademico romano, è stato anche ministro nel governo Monti
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