I GOVERNI RIFLETTANO SULL'USO DELLE PAROLE: È SEMPRE RISCHIOSO INFIAMMARE L'OPINIONE PUBBLICA
Francia e Italia hanno visto incresparsi le loro relazioni. Poi, improvvisa, la pace
Che è successo tra Italia e Francia? Le polemiche sull'Aquarius hanno assunto un tono così forte da mettere in discussione il vertice all'Eliseo tra il premier Conte e il presidente Macron. Poi i toni si sono calmati e l'incontro c'è stato. Un teatrino di politica internazionale? Qualcosa di più serio: un cambiamento di toni e di linguaggio nel rapporto tra due grandi Paesi europei. Sulla questione migratoria c'è materia di discussione tra l'Italia e le altre nazioni europee. A noi è mancato un aiuto concreto da parte dei partner dell'Unione, tra cui la Francia (che esercita un severo controllo sui passaggi al confine italo-francese, dove tanti sono i respinti e non pochi gli scomparsi). Ci sono anche altre questioni. La Libia, per esempio, dove l'iniziativa francese si fa più forte, mentre impallidisce quella italiana. Ma nessun problema giustifica i toni forti tra due Paesi alleati, storicamente amici. Italiani e francesi, oggi, si sentono la stessa gente. C'è una questione fondamentale: l'uso delle parole. L'ha affermato il cardinale Ravasi: «Uno dei problemi fondamentali di tutta la civiltà contemporanea», ha detto, «è proprio la necessità di una sorta di ecologia linguistica». Bisogna stare attenti alle parole: stanno diventando contundenti. Diventano armi. E le ferite restano. Questo avviene nella vita quotidiana e via internet, ma anche nel lessico di una politica gridata tra Governi. In un certo senso, ha cominciato il presidente Trump con i suoi tweet. Le parole sono accolte, anche per il vittimismo che dilaga, come un potente invito a considerare il Governo degli altri come il responsabile dei nostri problemi. C'è una responsabilità del linguaggio che riguarda soprattutto chi detiene il potere. Eppure il linguaggio contundente sembra pagare in termini di consenso. Forse è vero. Ma solo a breve termine. Perché un'opinione pubblica emotiva e infiammata spesso sfugge, con esiti imprevisti, al controllo di chi l'ha incendiata. Qualche giorno fa, il presidente della Cei, in una preghiera per l'Italia, ha ricordato una realtà della storia espressa dal profeta Osea: «E poiché hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta». Tra Paesi amici, anzi legati da storia e da affinità profonda, stretti nel vincolo europeo, come Italia e Francia, bisogna avere il coraggio non solo di una politica cooperativa, ma di un linguaggio che metta in luce soprattutto quanto ci lega. Forse quello dell'Unione e di Bruxelles è stato troppo complicato e tecnocratico, incapace di parlare alla gente. Ma non convince nemmeno il teatrino in cui, in poche ore, si passa dalle parole forti alle pacche sulle spalle. C'è qualcosa che non funziona e che non esprime la realtà delle relazioni tra i popoli del nostro continente.
Editoriale di Andrea Riccardi per Famiglia Cristiana del 24 giugno 2018
Francia e Italia hanno visto incresparsi le loro relazioni. Poi, improvvisa, la pace
Che è successo tra Italia e Francia? Le polemiche sull'Aquarius hanno assunto un tono così forte da mettere in discussione il vertice all'Eliseo tra il premier Conte e il presidente Macron. Poi i toni si sono calmati e l'incontro c'è stato. Un teatrino di politica internazionale? Qualcosa di più serio: un cambiamento di toni e di linguaggio nel rapporto tra due grandi Paesi europei. Sulla questione migratoria c'è materia di discussione tra l'Italia e le altre nazioni europee. A noi è mancato un aiuto concreto da parte dei partner dell'Unione, tra cui la Francia (che esercita un severo controllo sui passaggi al confine italo-francese, dove tanti sono i respinti e non pochi gli scomparsi). Ci sono anche altre questioni. La Libia, per esempio, dove l'iniziativa francese si fa più forte, mentre impallidisce quella italiana. Ma nessun problema giustifica i toni forti tra due Paesi alleati, storicamente amici. Italiani e francesi, oggi, si sentono la stessa gente. C'è una questione fondamentale: l'uso delle parole. L'ha affermato il cardinale Ravasi: «Uno dei problemi fondamentali di tutta la civiltà contemporanea», ha detto, «è proprio la necessità di una sorta di ecologia linguistica». Bisogna stare attenti alle parole: stanno diventando contundenti. Diventano armi. E le ferite restano. Questo avviene nella vita quotidiana e via internet, ma anche nel lessico di una politica gridata tra Governi. In un certo senso, ha cominciato il presidente Trump con i suoi tweet. Le parole sono accolte, anche per il vittimismo che dilaga, come un potente invito a considerare il Governo degli altri come il responsabile dei nostri problemi. C'è una responsabilità del linguaggio che riguarda soprattutto chi detiene il potere. Eppure il linguaggio contundente sembra pagare in termini di consenso. Forse è vero. Ma solo a breve termine. Perché un'opinione pubblica emotiva e infiammata spesso sfugge, con esiti imprevisti, al controllo di chi l'ha incendiata. Qualche giorno fa, il presidente della Cei, in una preghiera per l'Italia, ha ricordato una realtà della storia espressa dal profeta Osea: «E poiché hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta». Tra Paesi amici, anzi legati da storia e da affinità profonda, stretti nel vincolo europeo, come Italia e Francia, bisogna avere il coraggio non solo di una politica cooperativa, ma di un linguaggio che metta in luce soprattutto quanto ci lega. Forse quello dell'Unione e di Bruxelles è stato troppo complicato e tecnocratico, incapace di parlare alla gente. Ma non convince nemmeno il teatrino in cui, in poche ore, si passa dalle parole forti alle pacche sulle spalle. C'è qualcosa che non funziona e che non esprime la realtà delle relazioni tra i popoli del nostro continente.
Editoriale di Andrea Riccardi per Famiglia Cristiana del 24 giugno 2018
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