Erdogan e Trump, alleati dentro la Nato, hanno ingaggiato una infuocata guerra commerciale
La Turchia, Paese della Nato, è stata per decenni il bastione dell'Occidente verso l'Est sovietico. Le sue forze armate sono le più folte dell'alleanza, dopo quelle degli Stati Uniti: un milione di uomini con il servizio militare obbligatorio. Queste forze armate, fino ai radicali cambiamenti introdotti da Erdogan, al potere da più di quindici anni, esercitavano un controllo sulla vita politica, vigilando anche sul rispetto della laicità dello Stato voluta da Ataturk. Il ruolo politico delle forze armate è finito e l'islam è professato in pubblico. Ma oggi in Turchia si vive meglio, soprattutto nelle regioni interne, un tempo segnate dal sottosviluppo.
Erdogan ha ricevuto il 53 per cento dei voti alle ultime elezioni. L'opposizione resta forte, nonostante il controllo sui media, le limitazioni all'opinione pubblica e le misure di sicurezza, specie dopo il fallito colpo di Stato, che ha portato ad arresti e purghe. La Turchia, negli ultimi anni, ha condotto una politica molto autonoma dagli Stati Uniti e dalla Nato, con relazioni strette con la Russia e nei rapporti con l'Iran. Ankara ha cercato di ritrovare un ruolo nelle regioni ex ottomane, come Siria, Balcani e Iraq, tanto da far parlare di "neottomanismo". Ma non tutto va bene per il "sultano", come si pensava dopo la sua elezione presidenziale. L'attuale crisi economica s'intreccia con quella politica con gli Stati Uniti, inquieti per l'arresto del pastore evangelico americano Andrew Brunson, accusato di spionaggio. L'economia turca dipende dai finanziamenti esterni: la fiducia nella politica economica di Erdogan si è ridotta con la perdita dell'indipendenza della banca centrale e la nomina di Berat Albayrak, il genero del presidente, a ministro dell'Economia e Finanze. La Casa Bianca, per ritorsione sull`affare Brunson, ha raddoppiato le tariffe doganali sull'acciaio e l'alluminio della Turchia e la lira è scesa subito del 20 per cento. Gli industriali turchi hanno consigliato moderazione, ma Erdogan ha gridato al complotto e ha scelto lo scontro diplomatico e commerciale con gli Usa, invitando a boicottarne i prodotti. Questo clima infuocato, se aiuta il consenso interno al presidente, scoraggia gli investitori internazionali. Però l'emiro del Qatar, Al-Thani, è accorso ad Ankara promettendo cospicui investimenti e la Russia ha manifestato solidarietà. Tuttavia il mondo dell'economia globale pone limiti anche agli Stati che conducono politiche nazionaliste e sovraniste. Nell'epoca della globalizzazione l'economia turca ha bisogno della fiducia internazionale. La sua crisi - se ci sarà - non mancherà di ripercuotersi anche sull'economia italiana e su quella di altri Paesi europei.
Articolo di Andrea Riccardi per Famiglia Cristiana del 26/8/2018
La Turchia, Paese della Nato, è stata per decenni il bastione dell'Occidente verso l'Est sovietico. Le sue forze armate sono le più folte dell'alleanza, dopo quelle degli Stati Uniti: un milione di uomini con il servizio militare obbligatorio. Queste forze armate, fino ai radicali cambiamenti introdotti da Erdogan, al potere da più di quindici anni, esercitavano un controllo sulla vita politica, vigilando anche sul rispetto della laicità dello Stato voluta da Ataturk. Il ruolo politico delle forze armate è finito e l'islam è professato in pubblico. Ma oggi in Turchia si vive meglio, soprattutto nelle regioni interne, un tempo segnate dal sottosviluppo.
Erdogan ha ricevuto il 53 per cento dei voti alle ultime elezioni. L'opposizione resta forte, nonostante il controllo sui media, le limitazioni all'opinione pubblica e le misure di sicurezza, specie dopo il fallito colpo di Stato, che ha portato ad arresti e purghe. La Turchia, negli ultimi anni, ha condotto una politica molto autonoma dagli Stati Uniti e dalla Nato, con relazioni strette con la Russia e nei rapporti con l'Iran. Ankara ha cercato di ritrovare un ruolo nelle regioni ex ottomane, come Siria, Balcani e Iraq, tanto da far parlare di "neottomanismo". Ma non tutto va bene per il "sultano", come si pensava dopo la sua elezione presidenziale. L'attuale crisi economica s'intreccia con quella politica con gli Stati Uniti, inquieti per l'arresto del pastore evangelico americano Andrew Brunson, accusato di spionaggio. L'economia turca dipende dai finanziamenti esterni: la fiducia nella politica economica di Erdogan si è ridotta con la perdita dell'indipendenza della banca centrale e la nomina di Berat Albayrak, il genero del presidente, a ministro dell'Economia e Finanze. La Casa Bianca, per ritorsione sull`affare Brunson, ha raddoppiato le tariffe doganali sull'acciaio e l'alluminio della Turchia e la lira è scesa subito del 20 per cento. Gli industriali turchi hanno consigliato moderazione, ma Erdogan ha gridato al complotto e ha scelto lo scontro diplomatico e commerciale con gli Usa, invitando a boicottarne i prodotti. Questo clima infuocato, se aiuta il consenso interno al presidente, scoraggia gli investitori internazionali. Però l'emiro del Qatar, Al-Thani, è accorso ad Ankara promettendo cospicui investimenti e la Russia ha manifestato solidarietà. Tuttavia il mondo dell'economia globale pone limiti anche agli Stati che conducono politiche nazionaliste e sovraniste. Nell'epoca della globalizzazione l'economia turca ha bisogno della fiducia internazionale. La sua crisi - se ci sarà - non mancherà di ripercuotersi anche sull'economia italiana e su quella di altri Paesi europei.
Articolo di Andrea Riccardi per Famiglia Cristiana del 26/8/2018
Commenti
Posta un commento