EDITORIALE di Andrea Riccardi su Famiglia Cristiana del 9/9/2018
L'Europa sembra all'origine di tanti nostri problemi a partire dalla questione degli sbarchi di immigrati nel nostro Paese. Ma tutto è ben più complesso di questa interpretazione.
Se vogliamo ragionare di politica internazionale dobbiamo abituarci ad affrontare la complessità e non a lasciarci andare a semplificazioni emotive. Che i Paesi europei non siano solidali con l'Italia sull'accoglienza ai migranti è una realtà da tempo. Nasce da una considerazione esclusiva degli interessi nazionali, dimenticando che ci sono frontiere dell'Unione di fronte alle quali essere responsabili.
Nessun Paese vuole farsi carico della questione bollente dei migranti. Soprattutto il cosiddetto gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Cechia, Slovacchia e - di fatto - Austria) rifiuta di accogliere stranieri che sembrano incrinare l'identità europea e cristiana della popolazione. Più flessibile è l'atteggiamento della Germania. Viene da chiedersi (anche dopo l'incontro tra Salvini e Orbàn, primo ministro ungherese), quale sia la coincidenza d'interessi italiani con l'Est europeo.
I Paesi dell'Est, dall'89, vivono una stagione di riappropriazione dell'identità nazionale, diversamente dagli europei occidentali. I fondi e la solidarietà dell'Unione europea li hanno sostenuti nella ricostruzione economica dopo la Guerra fredda. Ma l'Europa non sembra la loro "casa": si pensano in modo molto nazionale. Una personalità ungherese una volta mi disse: «Prima andavamo a prendere gli ordini a Mosca, ora a Bruxelles».
La realtà è diversa. Sapientemente, Giovanni Paolo II insistette perché la Polonia fosse ancorata all'Europa. Ma i Paesi dell'Est vogliono un mercato comune europeo o una comunità politica? L'Italia ha un'altra storia: è un Paese fondatore dell'Unione. Il suo posto è accanto a Germania e Francia pur con una «vicinanza critica e costruttiva», come ha scritto recentemente Mario Monti.
La politica di un Governo (di qualunque indirizzo) non può non essere connessa alla storia e alla geopolitica italiane. Certo, in Libia esistono problemi tra Italia e Francia. Possono essere risolti. C'è però un consolidato metodo europeo per affrontare le questioni: il negoziato tenace e incisivo. Spesso gli italiani non hanno avuto pazienza e preparazione per affrontare una strada complessa, ma capace di dare buoni risultati. Questo vale per le questioni del bilancio, immigrazione, le necessità d'investimenti infrastrutturali e tant'altro. Molto ci unisce ai Paesi occidentali e soprattutto all'Unione. Anche perché in Europa e nel mondo c'è bisogno dell'Italia. Ma un'Italia ai margini dell'Europa rischia di essere un Paese senza rete, solo, nelle mani dei grandi interessi economici internazionali. Non è solo la questione dell'euro, ma dell'intera politica italiana. L'Unione non è un arcigno compagno di strada da cui difendersi, ma una comunità di destino in cui far sentire il peso dell'Italia. Un'Italia più europea è più affidabile a livello internazionale. E oggi sappiamo che la fiducia di cui gode un Paese è fondamentale per lo sviluppo della sua economia.
L'Europa sembra all'origine di tanti nostri problemi a partire dalla questione degli sbarchi di immigrati nel nostro Paese. Ma tutto è ben più complesso di questa interpretazione.
Se vogliamo ragionare di politica internazionale dobbiamo abituarci ad affrontare la complessità e non a lasciarci andare a semplificazioni emotive. Che i Paesi europei non siano solidali con l'Italia sull'accoglienza ai migranti è una realtà da tempo. Nasce da una considerazione esclusiva degli interessi nazionali, dimenticando che ci sono frontiere dell'Unione di fronte alle quali essere responsabili.
Nessun Paese vuole farsi carico della questione bollente dei migranti. Soprattutto il cosiddetto gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Cechia, Slovacchia e - di fatto - Austria) rifiuta di accogliere stranieri che sembrano incrinare l'identità europea e cristiana della popolazione. Più flessibile è l'atteggiamento della Germania. Viene da chiedersi (anche dopo l'incontro tra Salvini e Orbàn, primo ministro ungherese), quale sia la coincidenza d'interessi italiani con l'Est europeo.
I Paesi dell'Est, dall'89, vivono una stagione di riappropriazione dell'identità nazionale, diversamente dagli europei occidentali. I fondi e la solidarietà dell'Unione europea li hanno sostenuti nella ricostruzione economica dopo la Guerra fredda. Ma l'Europa non sembra la loro "casa": si pensano in modo molto nazionale. Una personalità ungherese una volta mi disse: «Prima andavamo a prendere gli ordini a Mosca, ora a Bruxelles».
La realtà è diversa. Sapientemente, Giovanni Paolo II insistette perché la Polonia fosse ancorata all'Europa. Ma i Paesi dell'Est vogliono un mercato comune europeo o una comunità politica? L'Italia ha un'altra storia: è un Paese fondatore dell'Unione. Il suo posto è accanto a Germania e Francia pur con una «vicinanza critica e costruttiva», come ha scritto recentemente Mario Monti.
La politica di un Governo (di qualunque indirizzo) non può non essere connessa alla storia e alla geopolitica italiane. Certo, in Libia esistono problemi tra Italia e Francia. Possono essere risolti. C'è però un consolidato metodo europeo per affrontare le questioni: il negoziato tenace e incisivo. Spesso gli italiani non hanno avuto pazienza e preparazione per affrontare una strada complessa, ma capace di dare buoni risultati. Questo vale per le questioni del bilancio, immigrazione, le necessità d'investimenti infrastrutturali e tant'altro. Molto ci unisce ai Paesi occidentali e soprattutto all'Unione. Anche perché in Europa e nel mondo c'è bisogno dell'Italia. Ma un'Italia ai margini dell'Europa rischia di essere un Paese senza rete, solo, nelle mani dei grandi interessi economici internazionali. Non è solo la questione dell'euro, ma dell'intera politica italiana. L'Unione non è un arcigno compagno di strada da cui difendersi, ma una comunità di destino in cui far sentire il peso dell'Italia. Un'Italia più europea è più affidabile a livello internazionale. E oggi sappiamo che la fiducia di cui gode un Paese è fondamentale per lo sviluppo della sua economia.
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