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Giovanni Paolo II: un uomo di Dio dalla profonda umanità

Roma 1979, uno dei primi incontri fra Giovanni Paolo II e Andrea Riccardi
Sapeva ascoltare. Non si chiuse in Vaticano: la sua Chiesa voleva essere anima e compagna dei popoli

Giovanni Paolo II è morto il 2 aprile 2005. Quindici anni fa. È passato tanto tempo e il mondo è cambiato. Era figlio di una terra lontana: nato in Polonia nel 1920, dopo la Prima guerra mondiale aveva vissuto l'orrore della Seconda e della Shoah, era stato testimone della persecuzione comunista. Eppure il suo ricordo e le sue immagini comunicano ancora oggi una forza viva. Non sanno di passato.
Quando l'ho accostato personalmente, ho avuto sempre l'impressione di un uomo abitato da forza e fede. Nella preghiera si raccoglieva tutto in Dio in modo stupefacente. Era uno spirituale, ma nell'incontro era simpatico, umano, attento alle persone, interessato a tutti gli aspetti, anche i più laici o personali. Nonostante fosse il Papa, era un amico, fedele verso i nuovi e gli antichi amici. Sul trono di Pietro, nel 1978, si sedette un grande credente e una persona dall'umanità profonda.
Quello che mi colpiva, tra tanti aspetti della sua personalità, era il modo di ascoltare. Parlava poco, domandava e ascoltava con interesse. Aveva sempre da imparare, anche da chi era giovane. Amava le discussioni tra gente di opinione o esperienza diversa, che talvolta riuniva. Non stava mai solo: ai pasti aveva sempre ospiti di ogni tipo e poi tanti incontri. Aveva una memoria formidabile. Sentiva come cuore della sua missione (era anche la sua passione) l'incontro con la gente. Amare il mondo voleva dire conoscere i popoli e le persone. Non si chiuse in Vaticano. Fece il vescovo di Roma e visitò tantissime parrocchie. Il suo fu un papato itinerante. Pochi mesi prima di morire, bloccato dalla malattia, andò in Svizzera e a Lourdes.
È stato un grande leader: lottava a mani nude con la forza della fede e della parola. Sapeva che la più grande schiavitù è dentro di noi: la paura, il conformismo, la rassegnazione. Lo aveva visto, nel 1979, nel primo viaggio in una Polonia avvilita. Lo constatava in un Occidente conformista. Era però convinto che quando un uomo o una donna o un popolo si liberano da questa "schiavitù" hanno una grande forza per cambiare il mondo. La sua Chiesa, senza ambizione al predominio (come talvolta gli fu rimproverato), voleva essere l'anima e la compagna dei popoli e degli uomini sulla via della liberazione, perché non perdesse la speranza. Credeva fermamente che la Chiesa non deve perpetuare le sue istituzioni, ma essere una profezia nella storia per cambiare il mondo. Non era rassegnato a un mondo sempre uguale, fatto di oppressione e senza libertà, abitato dall'egoismo di pochi ricchi, da grandi povertà, da rifugiati dimenticati, la cui storia è scritta da pochi potenti.
Sentiva come missione quella di lottare contro i conflitti bellici. Avvertì la follia della guerra in Iraq nel 2003, le cui conseguenze paghiamo ancora. Si sentiva un sopravvissuto della Seconda guerra mondiale, che doveva testimoniare: la guerra è un'avventura senza ritorno.
Wojtyla è un santo per la Chiesa: il santo della speranza. Quando era quasi alla fine, nel 2003, gridò: «Ma tutto può cambiare! Dipende anche da noi». La sua profezia parla ancora al mondo rassegnato dei nostri tempi che pensa che (quasi) tutto sia impossibile.

Editoriale di Andrea Riccardi su Famiglia Cristiana del 29/3/2020

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