Un'immagine della manifestazione del 16 agosto a Minsk Foto da https://commons.wikimedia.org/wiki/User:Homoatrox/Gallery2020-2 |
Molto vicino a Mosca, ora il Paese desidera la libertà e si muove verso un cambiamento pacifico
Il popolo esiste. Sembrava tramontato tra individualismo e social media. Invece c'è. Non solo in Libano, dove protesta per l'esplosione di Beirut.
Ora si è svegliato inatteso in Bielorussia, dimenticata nel cuore dell'Europa, tra l'Unione e la Russia. Meno di dieci milioni di abitanti. Isolata e sanzionata dall'Europa. Unico Paese europeo con la pena di morte in vigore. Al comando, dal 1994, Alexander Lukašenko, ora rieletto ancora una volta con un troppo "generoso" 80% di voti. Il popolo ha reagito: un'enorme manifestazione da Minsk, il 16 agosto, fino ai villaggi.
È una sorpresa: il Paese è stretto in un sistema repressivo e la repressione è stata violenta (e la rabbia cresciuta). Eppure la società sembrava rassegnata al sistema di protezione sociale, finanziato anche da Mosca, all'economia industriale di Stato (dove gli operai erano i primi sostenitori del presidente, elogiato per non aver venduto agli oligarchi come in Russia), alla vita delle campagne.
Lukašenko ha subito accusato agitatori stranieri ed europei. In realtà i cortei hanno rivelato l'animo del popolo: niente slogan contro la Russia o per l'Europa.
I bielorussi sono vicini ai russi, ma stanchi dell'autoritarismo: il falsato risultato elettorale ha offeso la dignità e l'intelligenza del popolo. Qualche settore vicino al presidente si è staccato, mentre questi è stato fischiato in fabbrica dagli operai. Uno dei suoi ex sostenitori ha affermato: «Prima la libertà! Abbiamo vissuto come schiavi, bene, ma i nostri figli non saranno più schiavi».
Il paragone è andato all'Ucraina e alla rivolta di Maïdan. Ma gli ucraini hanno un'identità forte, in parte antirussa (nonostante la grande presenza di russofoni), mentre il loro pensiero nazionale è maturato in Ucraina occidentale, peraltro di confessione greco-cattolica. Quali le reazioni di Mosca alla rivolta bielorussa? Un sostegno militare al presidente? Putin non può perdere la Bielorussia, l'ultimo Paese in Europa vicino a Mosca, anche se Lukašenko non è un alleato devoto, sebbene ora invochi da Mosca la salvezza del suo regime.
Putin si trova di fronte a un dilemma: intervenire o perdere. Brutte scelte per lui. Ce n'è però una terza, rispettosa di una società rivelatasi matura e tesa al rinnovamento. La transizione pacifica senza cambiare il quadro geopolitico. Pochi hanno seguito la storia della piccola Armenia, cristiana, protetta dalla sfera d'influenza russa da azeri o turchi: lì la rivoluzione di velluto fece cadere il Governo, ma dette garanzie a Mosca. In Bielorussia è più complesso, ma possibile.
Il popolo esiste in Bielorussia e Lukašenko, malgrado tanti anni di potere, non se ne era accorto. Si fa presto a sentenziare sulla "fragilità" delle rivolte di popolo, come si fa sulla stampa. I bielorussi sono gente forte (hanno pagato un durissimo tributo nella Seconda guerra mondiale: i nazisti ne hanno ucciso uno su quattro).
La transizione avrà bisogno dell'intelligenza della diplomazia russa, ma anche della prudenza degli europei, per non confondere i democratici con gli antirussi. La telefonata del presidente del Consiglio europeo Charles Michel a Putin promette bene. La Merkel si muove nella stessa linea, è consapevole dell'errore commesso nel mettere i russi in un angolo come in Siria. Ed è cosciente dell'inutilità di "piccole guerre fredde" in un mondo già troppo in guerra. Insomma, il "disgelo" bielorusso, che non piaceva a nessuno, soprattutto a un popolo in ostaggio, è oggi possibile.
Editoriale di Andrea Riccardi su Famiglia Cristiana del 30/8/2020
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