Foto: Official White House Photo by Shealah Craighead |
È un'alleanza strategica tra due mondi che non sono più agli antipodi e scoprono di avere interessi comuni
Qualcosa d'importante è avvenuto in Medio Oriente: la firma alla Casa Bianca di un accordo tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, detto il Patto di Abramo. Trump ha "presieduto" la cerimonia, cui partecipava il premier israeliano Netanyahu con i ministri degli Esteri dei due Paesi arabi. L'ha dichiarato un "fatto storico". Nella campagna elettorale Usa è un punto importante per il presidente.
La presenza di livello di Netanyahu - premier accanto a due ministri degli Esteri - mostra la riconoscenza d'Israele per la politica di Trump, che ha voluto l'accordo e favorito Israele pure con il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato, mentre i Governi occidentali mantengono le rappresentanze a Tel Aviv. Qualcuno ha paragonato l'accordo a quello di Camp David tra il presidente egiziano Sadat e il premier israeliano Begin nel 1978, che fece seguito all'iniziativa di pace di Sadat che coraggiosamente si recò in Israele nel 1977. Fu una svolta epocale tra due Paesi da sempre in guerra; ora si tratta di una normalizzazione tra Israele e due Stati arabi.
Ma è un fatto notevole per Israele: segna la fine ufficiale dell'isolamento israeliano nel mondo arabo, che fa seguito a rapporti ufficiosi d'Israele anche con l'Arabia Saudita, oltre che con Emirati e Bahrein (il che fa intuire il consenso saudita al passo dei due piccoli, ma potenti, Stati del Golfo). Si parla anche di un prossimo passo del Sudan in questo senso. Per il mondo arabo cadono ufficialmente preclusioni rigide di tipo propagandistico o ideologico, che non hanno mai aiutato la distensione. L'ufficialità vuol dire una certa irreversibilità di rapporti. Il contatto aperto con una società democratica come Israele, in pieno Medio Oriente, può far bene al mondo arabo. Fin dall'inizio della presidenza, Trump ha perseguito un'intesa tra arabi e israeliani, anche in chiave di opposizione all'Iran (che ha reagito duramente all'accordo).
Si tratta in qualche modo di un'alleanza strategica tra due mondi, che sembravano agli antipodi e scoprono di avere in comune interessi, oltre che economici, anche politici e militari. Dure critiche sono venute dai palestinesi: dal presidente Abu Mazen e da Hamas a Gaza. L'accordo porterà al riposizionamento delle dirigenze palestinesi alla ricerca di collegamenti con l'Iran, gli Hezbollah o la Siria. Resta il problema della reazione della Turchia di Erdogan, molto presente, specie in Siria e in Libia, ma anche attenta alla questione palestinese.
Qualcosa è cambiato in profondità: non c'è più un unanimismo panarabo o panislamista contro Israele. Erano anche contrapposizioni a parole, ma divenivano spesso terreno di scontri violenti e d'incomunicabilità.
Gli schematismi sono superati e ritorna la politica. Un passo importante di normalizzazione in un quadrante che ha conosciuto guerre, violenze, terrorismi di ogni tipo, mancanza di sicurezza d'Israele, questioni irrisolte come quella palestinese, muri e incomprensioni.
Un quadrante in cui continua la guerra in Siria, mentre l'instabilità domina in Iraq e il Libano è sempre più fragile. È difficile prevedere la soluzione dei tanti problemi e la fine delle conflittualità incrociate. Ma si apre una stagione diversa, in cui qualcosa si è smosso. È l'ora del dialogo politico, premessa decisiva per la pace.
Editoriale di Andrea Riccardi su Famiglia Cristiana del 27/9/2020
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