In occasione del 20 settembre, anniversario della presa di Porta Pia, il quotidiano La Repubblica ha intervistato Andrea Riccardi su come la sua famiglia visse quelle vicende. Ne viene fuori una storia nitida, in cui vita privata e pubblica si intrecciano.
Per i papalini fu un'apocalisse ma si adattarono in fretta al potere
«Per molte famiglie legate alla Chiesa cattolica, la Breccia di Porta Pia rappresentò un trauma profondo, una sorte di apocalisse». Andrea Riccardi - storico della Chiesa e fondatore della Comunità di Sant'Egidio - ripercorre quegli accadimenti nella scia di una memoria famigliare rielaborata nel tempo con la lente dello storico.«La mia famiglia paterna viveva a Trevi, in Umbria, e nel negozio di bassa farmacia dei miei avi si riversavano malumore e rimpianto».
Come venne vissuta la fine del papa sovrano?
«Come la fine del mondo, l'epilogo brusco di un regime millenario. Era come se un ordine umano e religioso ritenuto eterno fosse stato rovesciato da forze inaffidabili e persecutorie: tale era considerato il liberalismo. Questa naturalmente era la prospettiva da un piccolo mondo umbro, molto diversa da quella delle grandi potenze europee che guardavano a Roma papale come a un mondo finito, immobile e improduttivo».
Un suo prozio finì in galera.
«Il fratello di mio bisnonno era stato mandato a studiare a Roma, al collegio Angelicum. Divenuto monaco di San Paolo, venne fatto diacono pochi giorni dopo il 20 settembre, ma una volta tornato in Umbria fu condannato a due anni di carcere per renitenza alla leva: vivendo nello Stato del papa non sentiva di dover fare il servizio militare per la nuova Italia».
Fu vissuta in famiglia come un'ingiustizia?
«Penso di sì. Un monaco messo in prigione... Sembrava che il nuovo potere fosse ostile alla Chiesa. Ma è interessante la lettera che sua madre scrisse all'abate di San Paolo quando
don Placido - questo il nome di Tommaso da monaco - venne ordinato prete, dopo essere uscito di prigione.
Le era stato chiesto quale giorno preferisse per la cerimonia e lei
indicò quello della Madonna Addolorata perché "questi sono tempi brutti,
tempi di persecuzione". Questo era il clima».
Anche a Roma si respirava
l'atmosfera di lutto?
«Fino alla Breccia di Porta Pia, il mondo
ecclesiastico e molti fedeli sembravano avvolti da un sortilegio
mistico: pur sapendo che gli italiani erano alle porte, ci si rifugiava
in attese miracoliste. Una monaca del monastero dei Sette Dolori aveva avuto una visione: gli italiani non entreranno! Un`illusione durata solo pochi giorni, alla quale anche Pio IX credeva un po`. Ma quello che mi sembra più interessante è che, allo stordimento da apocalisse, subentra immediatamente un realismo tipicamente romano e dallo stesso 20 settembre si comincia a vivere insieme. Anche i fedelissimi di Pio IX si adattano a convivere con i "buzzurri", come venivano chiamati i non romani accorsi per fondare la capitale dello Stato Italiano».
C'era un'apertura?
«Direi uno spirito di adattamento: con i "buzzurri" bisogna convivere, anche se il Papa protesta per l'usurpazione. E per molti si aprivano scenari interessanti: pensi all'indemaniamento e alla messa in vendita dei beni ecclesiastici. Nella mia famiglia se ne sarebbero ben guardati perché Pio IX aveva comminato la scomunica, ma per molti fu un'occasione di arricchimento».
Formalmente le famiglie papaline esibivano segni di lutto.
«Ufficialmente sì, l`aristocrazia nera teneva i portoni chiusi a metà. Ma mentre ostentavano questa dolente blindatura, i nobili romani ricevevano gli ufficiali piemontesi nei loro palazzi».
E intanto Pio IX si presentava al mondo come vittima.
«Mi ha colpito che nelle rievocazioni di questo centocinquantesimo - un po` ripetitive - non si sia parlato della questione di Borgo. Cadorna lasciò al Papa non solo il Vaticano ma l'intera Città Leonina che contava varie migliaia di abitanti. Ma da parte pontificia fecero sapere al governo italiano che avrebbe potuto occuparlo: più gli toglievano, più il Papa si sarebbe potuto dichiarare prigioniero. Ci furono fitti contatti tra il cardinal Antonelli, il comandante pontificio Kanzler e il generale Raffaele Cadorna. Insomma nemici sì, ma negoziando».
Sta dicendo che la questione romana non fu poi così lacerante?
«Sto dicendo che fu una questione grave ma anche mitizzata, mai fatta cadere da parte pontificia finché al papa non fu riconosciuta la sovranità nel 1929, ma anche superata dalla convivenza. Vogliamo dire degli interessi legati alla costruzione di interi quartieri, alla quale parteciparono aristocrazia nera e alti prelati quali monsignor de Merode? Il luogo della convivenza fu anche il Campidoglio, dove comparve qualche nome della nobiltà papalina».
Ma da bambino la memoria di quelle vicende era ancora viva?
«No. Io ho scoperto queste storie leggendo la biografia di don Placido Riccardi e attraverso i racconti di una prozia. Ma già dopo la generazione dei bisnonni tutto questo svanisce: mio padre era un liberale che si identificava nel Mondo di Pannunzio. La memoria si esaurisce anche perché, due decenni dopo la Breccia di Porta Pia, era tutto passato pur nella persistenza delle tensioni. Benedetto XV - papa dal 1914 al 1922- trattava con il barone Monti, direttore italiano dei culti, che era stato suo compagno di classe. Il Tevere più largo è il titolo di un libro di Giovanni Spadolini: a tratti stretto a tratti largo, ma con vari ponti - direi io. Sarebbe sbagliato non tenerne conto».
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