Il premier Boris Johnson mentre sottoscrive l'accordo per la Brexit |
Troppo si è insistito sulla responsabilità individuale, tralasciando comunità e tessuto sociale
Dal 1° gennaio la Gran Bretagna è fuori dall'Unione europea. Ma è difficile uscire: quasi la metà delle esportazioni sono verso gli ex partner. Le fasi finali del negoziato della Brexit sono state convulse, ma alla fine si è trovata una mediazione.
Il premier Boris Johnson ha affermato che il Paese ha «ripreso il controllo di sé stesso». L'accento sulla sovranità è stato il mantra degli ultimi mesi, anche a costo di accettare condizioni obsolete.
«Sarebbe un buon accordo per un'economia del XIX secolo», ha commentato un ex ministro inglese, «basata sui prodotti agricoli e metallurgici oggi marginali!». Il Deal si è concentrato su alcuni aspetti, come gli interessi dei pescatori scozzesi (11 mila circa), dimenticando l'economia finanziaria della City con oltre un milione di impiegati, per ora senza garanzie. La finanza chiederà una delle equivalenze (garanzie di pari condizioni) che l'Ue potrà rilasciare. Ma Bruxelles usa il contagocce: sulle 39 esistenti, ne ha concesse solo 2 al Regno Unito, mentre gli Stati Uniti ne hanno circa 20.
La competizione sarà la regola. È la reazione europea: da Theresa May, Downing Street ha puntato sulla rottura dell'unità negoziale europea. Ma il capo negoziatore dell'Ue, Michel Bamier, ha tenuto uniti gli Stati membri, malgrado le divisioni su mille altri temi: il suo vero successo. Il motivo del rallentamento è che le Borse e le piazze finanziarie europee aspettano l'esodo verso il continente di operatori e sedi aziendali, già iniziato. La situazione è simile in altri settori: quello aereo, della Tv e delle comunicazioni. Lo schiaffo alla City è meno visibile per il pubblico rispetto ai pescherecci scozzesi o alle file di automezzi pesanti a Calais e Dover.
In realtà la Brexit inizia solo ora ed è tutta da scoprire: i britannici dovranno trattare caso per caso le questioni merceologiche, stabilire regole, aumentare burocrazia e controlli. Più tempo e più spesa. La gente si accorgerà di cosa manca e cosa costa di più. Il Paese è diviso: la City finanziaria è cosmopolita; i pescatori invece apprezzano il sovranismo patriottico del premier e i media popolari ne vanno pazzi.
Basta leggere il recente romanzo Middle England di Jonathan Coe per capire come si è giunti al fatto che il Paese più global rifiuti la globalizzazione. Il Regno Unito di oggi non è più quello che fu: dopo Londra, il deserto economico. Grandi città come Liverpool, Birmingham, Manchester sono in declino; le fabbriche chiuse, la manifattura scomparsa. Salvo i settori militare e della ricerca, il resto dell'economia è terziaria, sebbene avanzata. Londra ha fagocitato quasi tutta la ricchezza. Troppa enfasi è stata messa sulla potenza benefica della "distruzione creatrice" dell'iperliberismo globale.
Troppa gente non si è aggiornata, è stata lasciata indietro. Troppo si è insistito sulla responsabilità individuale, tralasciando comunità e tessuto sociale. Johnson afferma che ha vinto la politica sull'economia, presentandosi come lontano dal business e vicino alla gente.
I conservatori britannici hanno compiuto in dieci anni una conversione da posizioni thatcheriane neoliberiste al ritorno a un mondo della tradizione che non esiste più. La distruzione del Welfare State ora si paga. Come negli Stati Uniti che diedero la vittoria a Trump, anche nel Regno Unito i dimenticati si fanno sentire. Una lezione per gli europei: ogni errore in politica sociale costa caro. Se la patria del liberalismo si muove in questa direzione, forse c'è davvero qualcosa che non va nell'intero sistema.
Editoriale di Andrea Riccardi su Famiglia Cristiana del 10/1/2021
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