Il conflitto etnico in Etiopia, ignorato dal mondo. Se il Nobel per la pace rivela il suo volto da guerrafondaio...
Un gruppo di profughi del Tigrai - Foto UNHCR/Hazim Elhag |
Il premier Ahmed, con l'aiuto degli eritrei, ha scatenato una campagna d'odio contro la minoranza cristiana dei tigrini
In Etiopia c'è una guerra che non fa rumore: né immagini né presenza dei media. Nel 2018, Abiy Ahmed, divenuto premier (primo del gruppo etnico oromo ad accedere a tale carica), aveva suscitato grandi speranze con segni concreti di cambiamento, tra cui la pace con l'Eritrea, tanto da meritare il Premio Nobel nel 2019. Oggi alcuni credono che quell'accordo nascondesse una volontà egemonica che ora ha gettato la maschera: gli oromo, da sempre marginalizzati, hanno stabilito una nuova alleanza con gli amhara (antichi detentori del potere) per liberarsi dell'egemonia dei tigrini.
La rivalità tra popoli è iscritta nell'antica storia etiopica, in particolare tra tigrini e amhara cristiani, con gli oromo musulmani, marginali ma più numerosi. Con la vittoria del Fronte tigrino di liberazione nel 1991 e la parallela indipendenza eritrea, il Paese era stato suddiviso in Stati federali a prevalenza etnica. Il potere reale è rimasto per ventisette anni nelle mani dei tigrini. La crisi politica del 2012, causata dalla morte improvvisa del premier Meles Zenawi, si è alla fine risolta con un capovolgimento di alleanze. Ricordo il clima di inquietudine che si respirava al suo funerale, in cui rappresentavo il Governo italiano. Poi ci sono stati irrigidimenti e tentativi di secessione: questa è una possibilità iscritta nella Costituzione modellata sull'esempio di quella jugoslava di Tito.
Le tensioni crescenti sono sfociate negli scontri armati in Tigrai del novembre scorso. Sono poi intervenuti gli eritrei per sostenere gli etiopi entrando in Tigrai.
L'odio tra cugini si era manifestato nella guerra di Badme tra il 1998 e il 2000: per due anni si erano crudelmente combattuti attorno alla cittadina finché l'esercito etiope, a guida tigrina, era penetrato in Eritrea, minacciando Asmara. Meles non volle dare il colpo finale, ma l'affronto fu grande.
Oggi si parla di centinaia e talvolta migliaia di persone uccise dalle truppe di Asmara (pare a volte travestite con divise etiopi) alla ricerca dei capi del fronte tigrino in fuga. La guerra in Tigrai sta assumendo il volto spaventoso di un conflitto etnico: massacri di civili, stupri, fame, deportazioni e profughi in fuga.
I racconti dell'orrore iniziano ad accumularsi. La preoccupazione delle agenzie internazionali e umanitarie si fa sempre più viva. Ufficialmente le autorità di Addis Abeba hanno dichiarato finito il conflitto e negato (sino a qualche giorno fa) la presenza di militari eritrei. Si teme un effetto a catena tale da coinvolgere altre regioni etiopi e non solo, come mostrano le tensioni alla frontiera con il vicino Sudan.
Drammatiche sono le notizie dello sviluppo di un odio etnico-religioso: distruzione di chiese, massacri di preti e fedeli tigrini ortodossi, l'attacco alla chiesa Nostra Signora Maria di Sion ad Axum (dove la tradizione vuole siano conservate le tavole della Legge di Mosè) con una strage di centinaia di fedeli inermi.
Ricordo l'impressione della fede corale di cristiani dell'antica Chiesa ortodossa, durante le feste dell'Epifania ad Axum anni fa. La Chiesa paga il prezzo di essere l'antico cuore identitario della nazione tigrina e dell'Etiopia tutta.
Papa Francesco ha più volte fatto sentire la sua voce per la pace in Etiopia. Con la presidenza del G20 l'Italia può utilizzare la sua autorità nell'attuale negoziato per ottenere dal Governo etiope una verificabile svolta umanitaria in tale drammatico conflitto.
Editoriale di Andrea Riccardi su Famiglia Cristiana del 25/4/2021
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