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E il mondo assiste impotente alla lenta distruzione del Libano

 

Porto di Beirut in Libano dopo l'esplosione
Il porto di Beirut nei giorni dopo l'esplosione del 4 agosto 2020 - da Unsplash

A un anno dall'esplosione a Beirut, è ancora stallo politico. Ma nessuno interviene, nonostante gli appelli del Papa

Che succede in Libano? Questo piccolo Paese sembra dimenticato. Eppure ha un valore superiore al numero dei suoi abitanti (4 milioni 300 mila) e al suo limitato territorio. Giovanni Paolo II diceva: «Il Libano è più di un Paese, è un messaggio». Un messaggio di pluralismo e convivenza tra comunità cristiane e musulmane. È stato, dalla fine della Seconda guerra mondiale, uno spazio di libertà d'opinione e di grande vivacità culturale mentre, negli altri Paesi arabi, la vita civile era sottoposta a pesante controllo. In Libano si respirava libertà, anche se il sistema politico era fondato, seppure democraticamente, sulle comunità confessionali. Poi il declino. Non si tratta di ripercorrere la storia della guerra civile che ha distrutto il paese, un tempo chiamato "Svizzera del Medio Oriente". Ma la crisi non è stata mai così grave come oggi. Ora il Libano è sull'orlo del collasso politico, economico e sociale, specie dopo la terribile esplosione del 4 agosto 2020, su cui la magistratura non ha potuto far luce per le difficoltà interposte dalle forze politiche che non vogliono dare la possibilità di indagare su alcuni personaggi. Non si parla più del Libano, perché la comunità internazionale non sa più cosa fare. E in Libano non ci sono solo i suoi abitanti. È il Paese che ospita il più alto tasso di profughi rispetto alla popolazione: due milioni di palestinesi, arrivati a ondate dal 1948, che vivono nei campi, non considerati cittadini; due milioni di siriani, che difficilmente torneranno a casa. I profughi quasi eguagliano il numero dei cittadini libanesi. Se si riconoscesse la cittadinanza anche a una sola parte dei profughi, il Libano cambierebbe popolazione. Soprattutto i cristiani diventerebbero sempre più una minoranza. Il sistema politico non trova più risposte alle difficoltà presenti, anche perché è saltato l'equilibrio tradizionale tra cristiani maroniti (sono cattolici e rappresentano il gruppo cristiano maggioritario) e musulmani sunniti. I musulmani sciiti, fino a quarant'anni fa, erano considerati una comunità secondaria, ma oggi sono decisivi. La loro milizia, legata all'Iran, gli Hezbollah, ha giocato un ruolo importante nella guerra di Siria dalla parte di Assad (che guarda molto da vicino le vicende libanesi). Sono l'unica realtà armata, oltre l'esercito. L'economia è in bancarotta. Manca tutto. Non c'è carburante, né energia elettrica: il Paese è al buio. Non si riesce a formare un nuovo governo, mentre il presidente Aoun, 87 anni, maronita, eletto nel 2016, alleato degli sciiti, sembra aspirare a un nuovo mandato. Non si può più parlare di conflitto tra comunità religiose, cristiani e musulmani, ma di lotta tra clan politici e familiari che inquinano la politica. Nel Paese dei cedri, manca il senso del bene comune e dell'interesse nazionale. Ci sono proteste della gente, specie dei giovani, per la crisi economica e la perdita di valore della moneta. Questo mondo non è rappresentato dai partiti tradizionali. L'Occidente, per aiutare, chiede un governo stabile e riforme, mentre è contrario al ruolo degli Hezbollah. Papa Francesco ha recentemente riunito a Roma i leader cristiani e ha lanciato un messaggio perché il mondo non dimentichi il Libano, ma anche perché i libanesi si uniscano: «Nella notte della crisi occorre restare uniti». L'unità è decisiva in un Paese disgregato: «Insieme, attraverso l'onestà del dialogo e la sincerità delle intenzioni, si può portare luce nelle zone buie».

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