Un Paese ormai in povertà cronica dopo la fine delle speranze alimentate dalle rivolte del 2019
Tredici seggi per l'opposizione, rappresentativa della contestazione popolare di tre anni fa: la maggior novità del recente voto in Libano. Così perde la maggioranza il blocco che la deteneva, Hezbollah e alleati. L'alleato cristiano (la corrente di Aoun, attuale presidente della Repubblica) fa mancare i seggi alla maggioranza. L'avversario del blocco sciita, il partito delle forze libanesi di Samir Geagea, passa da 15 a 18 seggi, diventando il primo partito cristiano. Come si dice in Libano, la crisi è "multidimensionale": crisi parlamentare; disfacimento economico-finanziario; pessima congiuntura regionale (guerra di Siria); indebolimento del tessuto comunitario; estremo disagio sociale e assenza dei tradizionali aiuti esterni. Peggiorano le cose dopo la pandemia e la guerra in Ucraina, da cui il Libano dipende per il grano a1l'80%.
La vera crisi è interna: dal 2008 il Libano vive una discesa agli inferi. La rivolta popolare del 2019 ha fatto emergere il rigetto dei cittadini contro l'ossificazione del sistema, gestito dalle comunità religiose. La richiesta era la riforma del sistema elettorale, in Libano legato al comunitarismo e ai capi tradizionali. Ma la spinta democratica è stata ingoiata dalla pandemia e dalla crisi economica. L'esplosione del porto di Beirut dell'agosto del 2020, con più di 200 morti, ha suggellato la fine degli ultimi scampoli del Libano, "Svizzera del Medio Oriente" degli anni Sessanta.
Con la svalutazione di oltre il 90% sul dollaro e un'inflazione oltre il 140% annuo, il Libano è in povertà cronica anche nelle classi medie. Così è ricominciata l'emigrazione con la fuga del ceto medio. I più sofferenti sono i due milioni di profughi siriani, non riconosciuti legalmente, il 90% in situazione di povertà estrema. Il 60% dei libanesi ha bisogno di aiuti alimentari. Manca l'elettricità per ore anche nei quartieri della Beirut bene e negli ospedali. Molti libanesi non sono in grado di pagarsi le medicine e le farmacie chiudono.
Lo Stato - una volta largo in sussidi - lascia la gestione della popolazione alle milizie delle varie comunità. Ecco perché è difficile immaginare la fine del vecchio sistema semitribale, ieri mascherato dalla ricchezza. In realtà la questione sociale è quasi più importante della democrazia: il Libano non ha mai affrontato il problema del welfare e di un'equa distribuzione della ricchezza, delegando alle comunità la cura dei deboli. Ne è sorto un modello iperliberista e privatizzato, collegato alle piazze finanziarie internazionali e dedito alla speculazione immobiliare e monetaria. Dall'altra, un apparato paternalista che distribuiva sussidi e sovvenzioni in base alla lealtà clanica. Mai è sorto uno Stato moderno. Nel caos, le uniche forze di stabilizzazione sono state l'esercito libanese e i caschi blu dell'Unifil a sud. In questo quadro, gli sciiti di Hezbollah hanno giocato un ruolo crescente, contrastato dai sunniti del clan Hariri, socio dei sauditi. Una volta considerati come reietti, gli sciiti hanno conquistato potere e ricchezza, di fronte alle impoverite borghesie sunnite e maronite. Tuttavia la guerra di Siria e la crisi economica ora ha fiaccato anche loro. Con tutti i suoi demoni ormai senza controllo, non è chiaro il futuro di questo piccolo Paese, che aveva mantenuto finora l'indipendenza di fronte a vicini ben più forti e minacciosi, ma che non potrà salvarsi da solo e oggi più che mai ha bisogno di amici.
Editoriale di Andrea Riccardi su Famiglia Cristiana del 29/5/2022
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