Oltre le leggi e le istituzioni, abbiamo seguito un sistema basato sulla collaborazione e la familiarità
Sul tema dell'immigrazione in Italia c'è stato e c'è un gran parlare, anzi spesso si è molto urlato, gettando l'allarme sul pericolo dell'invasione di una popolazione estranea. Ma la società italiana e la sua economia hanno bisogno d'immigrati: circa 200.000 per il 2022. Ne ha estrema necessità la demografia italiana, quella di un Paese che invecchia con uno dei più bassi tassi di natalità al mondo.
Tuttavia, per anni, si è discusso sul fatto che gli immigrati cambiassero radicalmente il volto dell'Italia, ne aggredissero violentemente l'identità. In realtà le cose non sono andate così. L'Italia ha pragmaticamente elaborato un suo modello d'integrazione, diverso da quello francese che insiste sull'identità nazionale o da quello britannico che invece fa perno sulla multietnicità. L'integrazione si è fatta da sé, grazie alla buona volontà di molti italiani e al sogno di tanti immigrati. Non sono mancati incidenti, ma complessivamente è stata una storia positiva. Il "non modello" italiano è stato realizzato, nei fatti, da un movimento spontaneo di individui, famiglie, comunità, istituzioni, imprese, scuole.
L'integrazione italiana è passata largamente per un "processo adottivo", fondato sulla prossimità, sulla collaborazione lavorativa, sulla familiarità. Riflettendo sull'eccezionalità dell'adozione romana nel quadro della storia antica, ho definito la nostra integrazione un "modello latino" (ormai molti anni fa, nel 2013, nel quadro di un convegno sui problemi migratori cui partecipò Umberto Eco). In questo modello confluiscono la comunicatività partecipe dei mondi rurali, che si spopolano, un'urbanitas colta e curiosa, la pietas cristiana, il senso della famiglia, la solidarietà. Una storia di integrazione poco istituzionale e molto familiare: gli anziani hanno contribuito con le badanti, le famiglie con le colf. E poi la scuola ha fatto crescere insieme bambini di origine italiana e non (e con essi si sono sviluppati rapporti tra famiglie).
Molto spesso le istituzioni hanno creato problemi più di quanti ne abbiano risolti, come si vede dall'attuazione dell'ultimo procedimento di regolarizzazione, con ancora tanti casi aperti. E qui c'è la grave questione della cittadinanza dei bambini figli di immigrati non nati in Italia. Nel 2011, quando ero ministro dell'Integrazione e della Cooperazione internazionale, proposi che tale cittadinanza fosse conferita in base allo ius culturae (ora si chiama ius scholae) , superando il datato ius soli e lo ius sanguinis, impraticabile in un'Italia così porosa. La formula significa un'integrazione basica attraverso la scuola, che consente di ottenere la cittadinanza. Se ne è discusso ripetutamente, ma i vari governi succedutisi hanno avuto timore di arrivare alla conclusione. Ora che sembrava prossima, si è aperta una crisi politica.
L'integrazione italiana è una storia di milioni di "adozioni" nella vita sociale del Paese, ma tutto non può essere affidato alla spontaneità sociale. C'è bisogno della cittadinanza per riconoscere, come italiani, i ragazzi cresciuti a scuola con i nostri figli. La storia dell'immigrazione in Italia, pur con i suoi problemi, mostra che il Paese ha la forza - una forza gentile per crescere in quell'ars associandi che Tocqueville indicava come il vero segreto di ogni società civile.
Editoriale di Andrea Riccardi su Famiglia Cristiana del 21/7/2022
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